Un ritratto innovativo di Astianatte, nipote del re Priamo, è offerto dalle Troiane di Seneca (Corduba, 4 a.C.- Roma, 65 d.C.), evidente ripresa, pur con chiare differenziazioni drammaturgiche, dell’omonimo dramma euripideo. Come già il tragediografo greco, anche Seneca, dipingendo le conseguenze della Guerra di Troia, materiale mitologico per riflessioni potenzialmente atemporali, si sofferma sulla dimensione della sofferenza dei vinti civili, prestando, tuttavia, maggiore attenzione proprio al capitolare insensato delle figure dei più giovani.
Al personaggio di Astianatte, destinato a morire in nome di un’esigenza “politico-militare”, Seneca affianca quello della giovane zia Polissena, condannata a essere sgozzata in onore di Achille. I due fanciulli appaiono volti del medesimo dramma: entrambi sono costretti al sacrificio umano, all’esemplificazione inconsapevole del crollo di una comunità vittima dell’assurda brutalità bellica.
Nel dramma greco, Astianatte viene ucciso. Viene lanciato “come un disco dall’alto delle torri”, come commenta il Coro delle più tarde Troiane filo euripidee di Sartre. Nella tragedia di Seneca, invece, il giovanissimo figlio di Ettore non si lascia uccidere. Astianatte, il bambino all’apparenza indifeso, sorprendentemente si uccide da solo (vv.1091-1103), anticipando, coraggiosamente, il crimine dei carnefici e rifiutando la maschera di fanciullo intimorito che Seneca legittimamente gli conferisce al momento dell’ultimo addio alla madre Andromaca (vv.792-793). Astianatte muore fiero, orgoglioso. Il puer ferox (vv.1097-1098) sembra improvvisamente cresciuto: un grande eroe nel corpicino di un fanciullo. Il carattere straordinario del comportamento del bimbo è testimoniato anche dalla commozione del carnefice Ulisse, le lacrime del quale, se si tengono a mente i precedenti sotterfugi utilizzati dal medesimo per strappare il piccolo ad Andromaca, suonano assai stridenti.
È molto significativa, a proposito del sacrificio del figlio di Ettore, la similitudine di matrice ovidiana usata da Seneca per descrivere, nel piccolo, l’incredibile e antitetica coesistenza di vigore e tenerezza, eroica minacciosità e innocenza: Astianatte è il parvus tenerque fetus (vv.1094) di una feroce belva, un cucciolino che, benché ancora privo di denti, temptat morsus (vv. 1096). Il coraggio del bambino, inoltre, contribuisce a rinsaldare la corrispondenza binaria con Polissena: una scelta drammaturgica, quella del suicidio, che illumina l’eroismo di due fanciulli, pronti a darsi o ad accettare orgogliosamente la morte, per quanto ingiusta e assurda.
Il comportamento di Astianatte trova profonda e forte giustificazione all’interno delle pieghe del tessuto ideologico nel quale i personaggi della tragedia senecana si muovono. La significativa matrice stoica che caratterizza tanto la prosa quanto la produzione teatrale pedagogico- morale di Seneca permette all’autore una lucida analisi del problema della guerra non all’interno del quadro giuridico-statale, punto di vista del secolare dibattito sul bellum iustum, ma nell’ambito puramente filosofico- psicologico. L’aggressività e la violenza, madri e figlie del meccanismo bellico, sono esito, in accordo alla lettura stoica, di una mancata inibizione razionale delle passioni umane. Attraverso la spasmodica brama di potere e autoglorificazione, attraverso la sete di morte e distruzione si rende manifesto un biasimevole furor, causa prima, se non adeguatamente sedato, di quella drammatica capitolazione umana della quale è specchio la truce e macabra atmosfera delle tragedie senecane (si veda, a tal proposito, la cruda descrizione del cadavere di Astianatte ai vv.1110-1117). Attraverso l’adozione della chiave di lettura stoica, Seneca sviluppa una forma di radicale antibellicismo, molto esplicita anche in Epistole a Lucilio 95, 31, che Pohlenz commenta come “un’appassionata professione di pacifismo, condannando ogni guerra come una pazzia, come un delitto contro l’umanità.”
Alla luce di tali considerazioni di fondo, è possibile, dunque, trovare una chiara collocazione filosofico-morale alla morte di Astianatte: La fine del piccolo appare riproduzione di quella forma di autoannientamento, il suicidio stoico, che Seneca considera, come afferma in Epistole a Lucilio 70, nobilmente degna del saggio. Una morte che protesta, una morte che denuncia le disgrazie di un’esistenza che nega la serenità. Una morte che si rivela una drammatica, per quanto eroica, scelta di libertà.
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