IL Digitale


I contratti di licenza SW

Tutti noi accettiamo senza batter ciglio i contratti di licenza SW, siano quelli per l’utilizzo gratuito di social media o applicazioni, o quelli per il software che compriamo. Anche facessimo lo sforzo di leggere e capire le condizioni capestro che ci impongono, troveremmo difese invalicabili se chiedessimo mai di cambiare qualche clausola. Se andiamo a ben guardare il cappio che ci mettiamo al collo come un’elegante cravatta, viene naturale adottare più software aperto possibile. Facciamo un esempio.

Adobe offre il meglio possibile in quanto ai prodotti che aiutano nella creazione di contenuto, sia testuale sia visivo, e consente la produzione di documenti, presentazioni e video assolutamente professionali. Usata da tempo da fotografi professionisti ed aziende di comunicazione, grazie agli abbonamenti mensili è penetrata nei computer di tutti, fino agli studenti universitari e delle superiori. Tutti contenti, perché a seconda della cifra mensile possono usare solo le funzionalità necessarie.

Andando a vedere il contratto di licenza software, ci troviamo subito delle definizioni, perché ad ogni legale sulla faccia della terra serve definire esattamente il termine utilizzato. Il “contenuto” è quindi definito come ogni forma di testo, informazione, comunicazione e materiale, sia esso visivo, video o audio, che noi possiamo importare, manipolare e specialmente creare. L’azienda giustamente si riserva il diritto di ispezionare il contenuto, la cui proprietà e responsabilità è indubbiamente nostra: non vuoi mai che creiamo o comunichiamo contenuto che sia illegale, o peggio terroristico. E se stessimo giocando, imparando, scherzando? Non è previsto, meglio non farlo.

E poi in sei righe anonime, quasi innocue, l’azienda ci dice che, esclusivamente per gestire e migliorare il software (ci mancherebbe, nessuno penserebbe mai che vogliano guadagnarci), noi proprietari del contenuto gli diamo una licenza d’uso non esclusiva, valida in tutto il mondo, licenziabile ulteriormente a chi vogliono loro, ad usare, riprodurre, mostrare, modificare e distribuire il contenuto che noi abbiamo creato. Per esempio, potrebbero dare in licenza le vostre foto dei gattini a Facebook, per fare in modo che il social media migliori il suo riconoscimento dei felini.

Ora, se il vostro uso di questo strumento è esclusivamente personale e non professionale, “chi se ne frega” direte voi. Vuoi mai che Zucki sia interessato alle foto della Comunione, o quando ho eliminato 40 chili al girovita dello zio, mostrandolo aitante come da ragazzino? È un concetto pericoloso questo, simile all’altro che si sente parlando di Privacy: se non hai fatto niente di male, cos’avrai mai da nascondere? Fregatene.

Tutto al contrario. In ambito Privacy dobbiamo poter controllare tutto quando diciamo di noi, dei nostri interessi, dei nostri amici e conoscenti. Allo stesso modo, in ambito di libertà di pensiero e di creazione e formulazione di cosa vogliamo comunicare, dobbiamo poter controllare tutto quanto è nostro. Ricordiamoci che quando il software o il servizio sono gratis, il vero prodotto siamo noi. Quando le aziende si arrogano il diritto di prendere a prestito il nostro contenuto e farci cosa vogliono, ci hanno appena trattato da schiavi. Non serve fare altre piramidi, bastano quelle che ci sono al Cairo. Quindi, specialmente chi produce informazione e contenuto grafico a livello professionale, è meglio sia ben conscio di cosa firma con il contratto di licenza. E se volesse mai provare alternative open, sicuramente meno performanti ma libere di garbugli legali, non sbaglierebbe.


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In questo numero hanno scritto:

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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro