Cacciatori di aquiloni


La passione di punire

Qualcosa sta cambiando nella giustizia penale. Con singolare ed inaspettata celerità è stato approvato a marzo del 2019 il disegno legge 925 che esclude l’applicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo.

Questo vuol dire che l’imputato, chiamato a rispondere di reati che comportano l’ergastolo, non può procedere con il rito abbreviato, cioè con quel rito che comporta in caso di condanna lo sconto di pena di un terzo. La nuova legge avrà sicure ricadute sul funzionamento del sistema giudiziario in quanto comporterà un aumento massiccio di lavoro per la Corte di Assise. Quest’organo, incaricato di trattare i reati puniti con l’ergastolo, si vedrà caricato dei processi che avrebbero potuto essere giudicati in abbreviato. I dati statistici relativi a quei particolari reati sono significativi in quanto nel 2016 i processi definiti con rito abbreviato sono stati il 68%, nel 2017 il 79%. È allora evidente come la nuova legge si ponga in netta contro tendenza rispetto al favore dei riti alternativi e comprometta in concreto i tempi dei processi allungandoli, con buona pace, malgrado la retorica a buon mercato, proprio dell’effettività del trattamento sanzionatorio.

Ma vi è dell’altro. La legge si incunea in una tendenza già esistente rendendola più visibile e soprattutto legalizzandola. Ma di cosa si tratta? Per taluno, in una visione costituzionale, il diritto penale è una medicina.  Come tale però è a doppio taglio: può far guarire ma in proporzione eccessiva diventa un veleno. Quindi il suo problema è il dosaggio: le voci nel giudizio hanno diritto di entrare, ma secondo le regole e il linguaggio stabilito. La società non deve dar spazio ad una sola parte, ma deve consentire la ‘proporzione’, la misura. In poche parole, meno penale possibile e meno carcere.  Per altri invece, in una visione populista, l’obiettivo è proiettare il penale in direzione indefinita. Il cattivo, il fuorilegge deve essere eliminato, deve ‘marcire il prigione’. Il penale è un’arma, una potenza di fuoco che maggiora la dose. Quindi più carcere, sventolato ma soprattutto effettivo.

Il governo, con la riforma sull’abbreviato, ha scelto la seconda strada, una strada accompagnata da una giustizia senza bilancia. Ha iniziato con il decreto sicurezza (Legge 132 del 2018), ha continuato con la legittima difesa domiciliare (fine marzo del 2019), ha mostrato un impegno primario nelle misure cosiddette spazza-corrotti (Legge 3 del 2019) con un linguaggio che la dice lunga, ha bloccato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado a dispetto della costituzionale ragionevole durata del processo, non si è risparmiato a livello mediatico in occasione del rientro in Italia di Cesare Battisti, trionfalmente mostrato in catene nonostante le non poche norme nazionali ed internazionali che lo impediscono. Alcune peraltro nate in Italia e bagnate dalle lacrime di coccodrillo in seguito all’esibizione, anche in quel caso semi trionfalistica, di arrestati durante Mani Pulite nel 1992.

Quel qualcosa che stava cambiando, sotto pelle, oggi trionfa sulla scena con un misto di variabili. L’opinione pubblica, dopo una fase in cui si era candidata come controllore delle opacità del potere, ora ha assunto un nuovo ruolo grazie anche ai social. Esprime sollecitazioni, aspettative, condizionamenti, contribuisce a creare da protagonista un nuovo tipo di prova, quella sociale. La società è eccitata perché eccitabile, esprime pulsioni anche perché nulla cambia nelle viscere del popolo, animato ed agitato dal collante dell’emotività. Gli ingredienti sono molteplici: la paura collettiva, l’insicurezza di fronte all’altro, all’immigrato, al marginale, allo straniero, al nemico interno pericolosamente visibile, a chi non appartiene a noi. E’ il dominio dell’”altrismo”. Ma altri fattori si coagulano tra loro. Tra i tanti si segnalano per rilevanza le frustrazioni collettive verso chi è visto come responsabile o anche solo capro espiatorio delle personali infelicità o disgrazie. E’ questa la polemica sulle caste, sulle élite, sulle classi pericolose che cristallizzano simbolicamente le minacce di una fascia sociale ‘contro’ un’altra. Cresce il risentimento individuale, l’invidia, il disprezzo in un momento in cui le protezioni sociali sono in crisi, lo stato sociale è eroso, lo status è in caduta libera, la collettività è incapace di attivare difese interne. Da qui sgorga impetuosa la rabbia, l’indignazione, la paura collettiva, il risentimento. Si cerca il colpevole senza sconti, si punisce non per quello che si è fatto, ma per quello che si è. E così la materia giudiziaria si costruisce sugli stati emotivi delle vittime dei reati e la “proporzione” viene respinta perché nega l’auspicato trionfo dell'estremismo della sanzione. Dopo la fase in cui era l’imputato il principale oggetto di indagine, ora è la vittima la preoccupazione principale. Il delinquente viene cancellato come persona, la vittima esce dall’oblio e si presenta come soggetto di un trauma. Il delinquente è soggetto da neutralizzare perché rappresenta una minaccia, la vittima è un sofferente in cerca di elaborazione del lutto per cui ogni nuova tragedia rappresenta l’invito a punire in nome di chi è già stato colpito. Negli USA molte leggi portano il nome della vittima (Megan’s law ad esempio), nelle trasmissioni TV dominano le vittime rispetto agli incolpati, esse comunicano con il linguaggio del dolore che si trova agli antipodi del linguaggio giudiziario, ma che entra prepotente nel processo legittimato dalla richiesta di riparazione. Ma la soddisfazione che queste vittime chiedono non avrà mai soddisfazione perché il dolore incolmabile, e a stento la condanna è accettata mentre l’assolutoria è vissuta come sconfitta insuperabile, come un’offesa ulteriore rispetto a quella già subita. La riprova di queste considerazioni non ha bisogno di sforzi di memoria: basta rileggere i commenti all’inizio del 2019 relativi alle riduzioni di pena per violenze o omicidi, per cogliere, impalpabile ma netta, una diffidenza verso la magistratura. E questo perché essa non si rende interprete dei bisogni di sicurezza collettivi e finisce per tradire le richieste di rigore in quanto indulgente con i colpevoli, veri nemici dei ceti popolari. Viene ripudiato il potere del giudice di applicare la pena perché ritenuto una intollerabile discrezionalità "buonista", da cancellare al pari della discrezionalità uscite dalle riforme del recente passato di colore diverso quali il proscioglimento per tenuità del fatto o l'adozione di condotte riparatorie.  Solo il carcere garantisce con la segregazione del condannato il pericolo di reiterazione che mette in pericolo la sicurezza collettiva.

La riforma del rito abbreviato impone però ancora una considerazione. Si tratta di un rito speciale introdotto per alleggerire il carico del lavoro giudiziario, come altri come il patteggiamento.  E’ una sorta di scambio tra le garanzie, che il cittadino potrebbe usare, e la pena, ridotta se non le usa. L’effetto è una maggiore celerità dei processi e quindi un traguardo positivo per la vittima che abbrevia i tempi di attesa. Con la riduzione della pena. La riforma invece proietta il processo in tempi più lunghi, con un disagio maggiore per la vittima che si vuole invece prioritariamente tutelare, ma con una pena piena e sicura invece che ridotta dai riti speciali. E’ l’inizio, ma se il giorno si vede dal mattino... 

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