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Occhio agli ostaggi

Scrivo questi articoletti il fine settimana prima che li leggiate su Zafferano, sapendo che dopo una settimana la cronaca si sviluppa in modi inaspettati. Bene, oggi i media americani non ci raccontano di Thanksgiving e Black Friday, ma si concentrano sullo scambio di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Biden ha fatto l’impossibile per arrivare ad una pausa nei combattimenti, mandare aiuti umanitari, e specialmente liberare gli ostaggi del 7 ottobre. Sotto sotto sta cercando di allungare la pausa il più possibile, cronicizzare il conflitto.

Dopo quasi 50 giorni, nonostante i proclami bellicosi di Netanyahu e fidi ministri, l’unico modo per liberare i 240 rapiti è negoziare, ed accettare quindi condizioni antipatiche: liberare tre palestinesi per ogni israeliano, sospendere bombardamenti e ricognizioni coi droni, far entrare 300 camion di provviste a Gaza. I vertici israeliani hanno discusso a lungo prima di negoziare, e litigato prima di accettare queste richieste palestinesi: ormai è evidente che Hamas tiene testa sia sul piano militare, sia su quello politico, e non può esser spazzato via in pochi giorni. Questo negoziato è una mini-vittoria di Hamas.

Dopo due anni in cui ho usato esempi dal conflitto ucraino, quest’anno nel corso sulle tecniche negoziali per la gestione del conflitto proporrò questo caso. Lasciando perdere la storia che ha portato alla debacle del 7 ottobre, cosa avrebbe dovuto fare Bibi il giorno dopo? Possiamo ipotizzare opzioni diverse rispetto a quella intrapresa?

Prima di valutare un qualsiasi spazio negoziale, occorre chiedersi quale sia l’alternativa migliore. È stato corretto per Netanyahu rimanere al comando, dichiarare guerra e formare un governo d’unità nazionale? L’8 dicembre 1941, il giorno dopo Pearl Harbor, Franklin Roosevelt pronuncia il discorso dell’infamia (vale la pena, qui) e spiega all’America che non dobbiamo solo difenderci, ma impedire che un attacco a tradimento possa ancora capitare. Non c’è spazio per reciprocità e proporzionalità, e 2.6 milioni di giapponesi ne patiscono le conseguenze. Bibi segue questo esempio, ma perde tempo e si impantana: vincere per lui è sempre più difficile, ogni giorno che passa.

In un altro scenario, Bibi avrebbe potuto dimettersi, cacciando anche i militari corresponsabili del mancato avvertimento e difesa dell’attacco. In questo ipotetico caso, un nuovo esecutivo sarebbe partito da tabula rasa, e potuto negoziare un accordo fin da subito. Rilascio dei prigionieri, consegna delle armi ed impunità per i terroristi, costituzione dello stato palestinese. Pur ipotizzabile, le feste al passaggio dei prigionieri israeliani a Gaza, dove non si vede nessun palestinese protestare o proteggere donne e bimbi rapiti, danno una misura dell’odio. Le due parti non si considerano essere umani alla pari: gli uni credono di essere superiori agli altri, rendendo impossibile l’inizio di qualsiasi negoziazione. L’alternativa migliore alla soluzione concordata è quindi la distruzione dell’una o dell’altra parte: quando sentite parlare di due stati, sbadigliate senza problemi, in questo momento è fantascienza.

Esiste una terza opzione, poco probabile e basata sul fatto che il conflitto non conviene a nessuno: né ai contendenti che vivranno tanti altri funerali prima di venirne fuori, né al resto del mondo, che su questo conflitto litiga da sempre. In questo scenario l’alternativa alla soluzione negoziata è il ricorso all’autorità, che deve essere imposta con la forza ad entrambe, non necessariamente accettata. Non parliamo quindi dell’Onu, che funzionerebbe solo con l’accettazione di Israele e palestinesi, ma di una coalizione di stati che possa imporre condizioni capestro, al cui confronto la negoziazione del conflitto sia preferibile. Questa coalizione, che necessariamente deve avere America e Cina a bordo, potrebbe tagliare i fondi finanziari ed i flussi di armi, boicottare le attività economiche e portare entrambe i contendenti alla fame. Dal conflitto ucraino abbiamo imparato che senza una coalizione mondiale convinta, le sanzioni sono dei boomerang. Tuttavia, Israele non è la Russia, e l’economia palestinese è inesistente: questo scenario è improbabile, d’altra parte tutto quanto fatto finora ci ha portati dove siamo.

Si possono ipotizzare altri scenari, altre leve per costringere i contendenti a dialogare e trovare un modus vivendi. Dopo il figurone ucraino, Biden ha disperatamente bisogno di metter una pezza su questo conflitto: tranquilli, siamo in una botte di ferro.


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Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite