Nessun colloquio è possibile con chi protesta imbrattando di minestrone (sic!) il quadro “Seminatore al tramonto” di Vincent Van Gogh o non permette di andare al lavoro a chi se non lavora non mangia, o non fa parlare chi scrive libri. Il tutto ripetendo pappagallescamente frasi fatte, scritte dai soliti perdigiorno colti, in versione cattivi maestri.
Mi rifiuto di pensare che l’Occidente, caduto così in basso con i muscadins-ztl, non sappia rialzarsi.
Contro costoro ho trovato un vaccino: scoprire storie di giovani benestanti come loro, che però usano la ricchezza in modo diverso. Per esempio, una storia etiope-romana: Babajè (Gremise Editore) di Francesco Romagnoli.
E’ l’autobiografia di un commercialista romano di famiglia agiata, che ha il privilegio a un certo punto di non trovare più piacere nella sua vita piena di lussi. Nell’anno 2000, dopo un viaggio turistico nel Corno d’Africa, fa “l’incontro della vita”, quello con i cosiddetti “bambini invisibili”. L’impatto è per lui (meravigliosamente) devastante, al punto che decide di trasferirsi in un remoto villaggio del Nord dell’Etiopia, dedicandosi a loro. Da quel momento i bimbi lo chiamano Babajè, cioè papà mio.
Questi “bambini invisibili” li ho conosciuti anch’io, li conosciamo in tanti, da sempre, viaggiando, leggendo, vedendo documentari. Sono quelli scheletrici e con la pancia gonfia, con le mosche che banchettano sui loro occhi, vestiti di stracci. Molti in Occidente li usano per cercare donazioni (orrore markettaro!). Li abbiamo visti con le madri che offrono loro un seno avvizzito, vuoto per denutrizione. Sono bebè che muoiono mentre cercano di succhiare una vita che pare non esserci più.
Molti muoiono in uno dei più bei paesaggi che io abbia mai visto, l’Etiopia, tanto bella quanto devastata da infinite guerre, spesso esportate da noi occidentali. Sotto un cielo che in molte notti è una preziosa trapunta di stelle, di un blu talmente intenso che solo Jan Vemeer è riuscito a ricrearlo sulla tela, miscelando poesia e pregiati lapislazzuli.
Un libro meraviglioso. Babaje Francesco con il suo patrimonio, con quello dei suoi genitori e dei suoi amici ha costruito un villaggio modello, con scuole, ospedale, pronto soccorso, campi, stalle, ma anche piccole attività imprenditoriali, per dare lavoro e futuro alla comunità. Il racconto è struggente ed emozionante, devi leggerlo di un fiato, fino a esserne stremato. Felice.
Babaje Francesco si rivela un fior di scrittore, e come ogni grande libro, che ha al centro la generosità, c’è una frase che lo connota “Il tempo non va risparmiato, piuttosto va speso con parsimonia, perché è la ricchezza più grande che abbiamo”.
Confesso che provo tristezza e pena verso le nostre classi dominanti, genitori o nonni, che hanno allevato questi poveri ignoranti (nel senso che ignorano le cose più elementari della vita). Sembrano essere stati allevati in un germogliatore, che ha subito un black out durante il processo. Giovani-vecchi pieni di cattive abitudini, di contraddizioni, gonfi di rabbia sul nulla, seguaci di credenze assurde e assolute, odiatori della bellezza e della cultura. Eppure questi ragazzi un giorno andranno al potere.
Com’è successo con i “sessantottini”, che ormai a fine ciclo stanno consuntivando solo fallimenti, dandosi la colpa gli uni con gli altri. Che fossero degli arroganti inetti lo si vedeva già allora. (nel libro Una Storia Operaia 1934-2022 racconto una delle peggiori umiliazioni della mia vita, Un gruppo di giovani universitari alto borghesi (alcuni futuri assassini di Potere Operaio) che spingono con violenza giovani operai come me della Grandi Motori in cortei diretti ai Palazzi del Potere torinese, dove dentro c’erano i loro (loschi) padri o nonni.
Vorrei che i miei nipoti non rivivessero quei tristi tempi.