IL Cameo


Per difendermi dalla doppia pandemia, virale e psicologica, vivo negli interstizi

Quando una quindicina di anni fa decisi, ultrasettantenne, che avrei continuato a lavorare, però senza essere pagato, non capii che mi ero regalato una vecchiaia felice. Così come ottima fu la scelta di puntare a diventare giornalista, scrittore, editore, senza scopi di lucro e senza la pretesa che le mie idee fossero condivise, peggio, potessero rafforzare i pregiudizi dei...

... miei lettori. Devo all’amico Pierluigi Magnaschi se entrai nel giornalismo dalla porta principale, mantenendo però una mia personalissima linea editoriale (il Cameo), rigorosamente apòta, liberale nature.

La costruzione del Cameo inizia una decina di giorni prima della sua uscita. E’ una specie di “sabatina”, la cena di grasso che si praticava in tempi lontani, subito dopo lo scoccare della mezzanotte del venerdì, per aggirare il precetto. La scelta del tema e la sua realizzazione sono molto lunghe e faticose. E’ costruito per assemblaggi e disassemblaggi successivi, alternando tagli e aggiunte, luce e buio. Essendo una scheggia di magma bollente, il Cameo o lo ami o lo butti. Mi rappresenta in pieno, essendo tra quelli che, nel mondo della comunicazione, hanno chiara la socratica distinzione fra coppieri e commensali.

Ho da subito rifiutato di misurarmi con la potenza del Covid, evoluto poi nel Vax, quindi nel Pass. Argomenti da stare alla larga, perché non compatibili con la filosofia del Cameo. La sua natura è apòta, con venature anarchiche, per di più mediato da un apòta storico come me che si rifiuta di confrontarsi con gli esaltati dell’una o dell’altra “chiesa”, quando si tratti di sanità o di clima o di politica politicante, o di Cancel & Woke Culture.

Con questa scelta di rimanere defilato e in silenzio mi sono sottratto al narcisismo pandemico dominante, rifugiandomi nella lentezza del vivere. Medicina straordinaria la lentezza, per sopravvivere nella doppia pandemia che ci ha colpito, quella virale, dalla quale mi sono tenuto lontano, essendo compito della Scienza (la maiuscola è voluta, eliminando così i fastidiosi virologi e conduttori tv) e quella psicologica, che deriva dal portare il cervello all’ammasso di un losco presente.

Io non ci sto, come liberale nature a condividere tutto nella vita. Non ci sto che tutto sia raccontato in diretta, tutto sia detto. Nel mio cervello, nel mio cuore, nella mia coscienza, ci sono molti spazi vuoti, dove le mie idee, i miei sogni, le mie decisioni sostano, si liberano dalle scorie del presente, maturano, cadono o si rafforzano, si fanno più o meno sagge, sempre nel rispetto della libertà degli altri. In questi spazi privati sono al riparo dalla ripetitività ignorante di costoro, della loro ridicola retorica pro o contro. Quello che per loro è il tutto, per me, spesso, è il nulla.

Mi sono sempre attenuto alla riflessione di Noam Chomsky, “Se non crediamo nella libertà di espressione per le persone che disprezziamo, non ci crediamo affatto.” Anni fa scelsi, come stile di vita, una locuzione “vivere negli interstizi” che è esattamente l’opposto di vivere sul Web, sui media, sul bla bla bla politico-mediatico attuale. E’ l’ultimo gradino, prima del “vivere in silenzio”, la forma più alta di comunicazione alta.

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In questo numero hanno scritto:

Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro