IL GESU’ BAMBINO TEDESCO E LA BEFANA FASCISTA DELLA MIA INFANZIA
Nella mia infanzia due personaggi dominavano la scena dalla vigilia di Natale all’Epifania. Mai riuscii a vederli, perché arrivavano quando io dormivo. Erano Gesù Bambino (scoprimmo poi che era tedesco) e la Befana (detta anche Befana del Duce. Volete saperne di più? Digitate befana fascista). Erano doni stile reddito di cittadinanza, senza un briciolo di meritocrazia ma a me quel mistero dell’attesa piaceva.
Scoppiata la guerra, nel Natale 1941 il Gesù Bambino (tedesco), portatore di doni, improvvisamente scomparve, nessuno nella mia famiglia ne parlò più. I miei genitori non diedero allora alcuna spiegazione della sua scomparsa. Molti anni dopo scoprii che la figura che mi avevano spacciato come Gesù Bambino derivava, a loro insaputa, da una tradizione tedesca (il Cristkind risalente a Martin Lutero e che aveva sfondato nei ceti poveri in Piemonte, nella bassa Lombardia, arrivando forse fino a Verona per congiungersi al Brennero, alla Baviera). Forse, conosciuta questa storia, i miei genitori preferirono troncare ogni rapporto, considerando Cristkind una quinta colonna nazista. Era un periodo drammatico quello, dove bisogna scegliere con chi stare. I miei genitori rifiutarono pure la Befana fascista che si presentava in forma di pacco (prevedo una prossima Befana di Bezos). Così entrambi i personaggi lasciarono la nostra casa. A Natale mi rimase però il buono per visitare il grande presepe meccanico della Chiesa Santissima Annunziata di via Po. C’è tuttora, tecnicamente molto migliorato, ma io lo ricordavo diverso, più mistico.
Scomparso il Gesù Bambino tedesco, rimase il Gesù adulto, quello vero, al quale, da sempre, mi rivolgo ogni sera prima di addormentarmi. A Natale, come faccio ogni anno, ho parlato dei miei sogni e dei miei obiettivi nascosti per il 2020. Il sogno è che Zafferano.news possa giocare le sue carte (speriamo non siano scartine) nel grande risiko conseguente all’arrivo, con idee nuove e quattrini vecchi, dei consulenti anglosassoni di Exor sul mercato editoriale italiano. L’obiettivo personale invece è lo stesso che perseguo da una vita: stare fuori dallo Zoo del politicamente corretto, luoghi frequentati da quell’orrenda genia di folletti colti e presuntuosi che trovi ovunque, dai salotti, alla politica, ai social.
Di riffa o di raffa al 2020 ci sono arrivato, sono vecchio ma per fortuna sto invecchiando bene, come mia mamma. Lei, fino alla fine rimase l’operaia anarchica carrarina, mite e sorridente, atea e mangiapreti (volle darmi l’opportunità di diventare cattolico: ci riuscì), ma sui valori della libertà non mollò mai, fu sempre contro. Dopo aver convissuto con costoro da trent’anni confesso la mia stanchezza, non ne posso più del loro Ceo capitalism, delle loro seghe mentali avvolte nella fuffa, dei loro tweet, del loro vivere da cuscute alle spalle dei poveracci.
Comunque, tranquilli, nel 2020 in Italia non dovrebbe succedere nulla di eclatante, salvo il continuo degrado delle infrastrutture morali e fisiche del Paese (ponti e dignità politica). Le elezioni? Non ci saranno, perché non convengono a nessuno, neppure a noi della stampa. Vedrete, nel 2020 noi saremo tutti tesi a cercare di salvare le nostre cadreghe, terrorizzati dal grande risiko digitale dell’editoria. Potete esserne certi, saremo prudenti e allineati nello scrivere, quindi non verremo letti da nessuno. Dimenticheremo l’immortale battuta di Winston Churchill “Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra”. Auguri a tutti!
NOI EUROPEI CI HA ROVINATO IL LANGUORE
E’ stato un decennio dominato dallo scirocco, un vento caldo proveniente da sud-est. Noi europei siamo stati governati da leader colpiti dalla sindrome del languore, che l’hanno poi riverberata sui sudditi. Se li osserviamo, prescindendo dagli atteggiamenti pubblici dove, come ovvio, si danno un contegno presidenziale, i cinque premier italiani che si sono succeduti nel decennio hanno avuto il languore come cifra. Perché il languore è stata la politica che l’Europa ha proposto e imposto ai cittadini. In Italia abbiamo avuto, in successione: il languido tecnico, il languido accademico, il languido chiacchierone, il languido pigro, il languido imbarazzato. Se crei un’entità politica come l’Europa basata non sulla politica ma su contratti non puoi che produrre leadership notarili, ove il dilemma è, di volta in volta, scegliere fra languore e cattiveria, in totale assenza di execution politica.
Se prendiamo il caso Libia ne abbiamo contezza. All’inizio del secondo decennio, null’altro che due coppie salottiere, come i coniugi Sarkozy e Cameron, con la consulenza del filosofo della mutua BHL, una domenica pomeriggio, anziché farsi una pennichella, decidono di fare la guerra a freddo alla Libia di Gheddafi. Le motivazioni? Igieniche. Innescano così meccanismi a loro assolutamente sconosciuti, stante il miserabile livello culturale e morale di entrambi. Accorgendosi di non essere in grado neppure di bombardare, chiedono un aiutino al premio Nobel per la Pace, a Barack Obama (buono quello!) perché intervenga in loro soccorso. Costui lo fa, per poi pentirsi anni dopo. Tre poveretti, tre uomini in barca per non parlar del cane. Jerome K Jerome li aveva descritti così già nel 1889.
In questi giorni di inizio del terzo decennio siamo al finale travolgente. Sull’uscio di casa, a Tripoli appunto, l’Europa getta la spugna e cede il passo a Turchia e Russia. In pratica, grazie al duo di Aquisgrana, ci troviamo, a nostra insaputa, sotto il protettorato di Recep Erdogan. Costui ormai si è impossessato della difesa (a pagamento!) dei confini europei del corridoio balcanico, sta per entrare in possesso del distributore di benzina libico che ci dovrebbe riscaldare, gestirà il flusso di migranti africani sostituendo la criminalità e le ONG acquatiche. Mai, nella storia dell’umanità, una grande potenza aveva affidato, in outsourcing, a un paese canaglia la difesa dei propri confini, e il suo approvvigionamento energetico.
Il blocco di potere franco-tedesco, più i cespugli-cuscute nordici, che hanno dominato l’Unione europea dalla sua nascita sono diventati la parodia (languida) di coloro che l’Europa la fondarono. Nel frattempo gli inglesi tagliano la corda, il Ceo capitalism entrato nel suo autunno, cerca di monetizzare: crescita zero per i poveracci, aumento del 25% dei patrimoni delle élite (certo, tecnicamente non è così, ma così viene percepito dal popolo bue, come dicono i colti).
Noi europei stiamo diventando sempre più un mercato, una Disneyland per turisti asiatici, senza valori, senza dignità, senza uno straccio di strategia, avviluppati dallo slogan “settant’anni senza guerre”. Il languore cresce, siamo frastornati. “Un attimo di languore, di mollezza, e io sono perduta” poetava Gabriele D’Annunzio, che di languore se ne intendeva, ma anche di execution.
L’ANNO DEL RISIKO DELL’EDITORIA E’ COMINCIATO
Il nostro cenone di Capodanno, a due, è iniziato alle 19 e si è concluso alle 20,15, in tempo per indossare una camicia bianca, una Marinella granata anni ’70, una giacca blu, e ascoltare, compunti, il discorso del Presidente Mattarella. Il menu elaborato da Samuele (ristorante Italia di Castel Vittorio) era identico a quello di Natale salvo, in luogo della gallina bollita, la capra bima (vergine), con i fagioli di Pigna: piatto principe della cucina occitana. Amici di Piacenza ci hanno regalato un centro tavola con fiori freschi: ha colorato la nostra serata. Comunque, posso confermare che, anche questa volta, neppure un euro è uscito dalla provincia di Imperia.
Ho ascoltato, in religioso silenzio, il discorso del Presidente, nulla da commentare. Temo che il format sia stanco. Impossibile trovare, in 15 minuti, una sintesi che suoni autentica in un Paese che dopo trent’anni di Ceo capitalism (un modello economico, politico, culturale per sua natura divisivo, che sta portando allo smantellamento della classe media, alla precarizzare degli ultimi, all’eliminazione dell’ascensore sociale, per arricchire quattro sociopatici californiani-cinesi) possa ricomporsi in una notte. Il Paese degrada, come tutti gli altri paesi europei, fingiamo che vada tutto bene, ma non è così.
Non stiamo solo invecchiando, stiamo decadendo, perdiamo i pezzi. E non vogliamo dircelo. Difficile fare l’arbitro fra forze contrapposte, ognuna convinta di essere nella ragione. Per quel che vale (nulla) per il prossimo anno suggerirei un format ove il Presidente sia il Nonno saggio del Paese, racconti i problemi che ha avuto, cosa si propone per l’anno a venire. Semplicità, umanità, fiducia consapevole: lui ne ha le capacità. Che bisogno c’è delle staff quirinalizie che pesano ogni parola con il bilancino rendendo qualsiasi discorso sciapo? Bastano degli appunti suoi scritti a mano, e via. E noi cittadini, visto il contesto, chiediamoci: noi che facciamo per il Paese? Io ci provo.
Due anni fa, proprio in questo periodo, l’indice Gleason del mio carcinoma indicava che molto probabilmente non sarei riuscito a “chiudere” in tempo il libro sul Ceo capitalism che stava ormai diventando un emulo del Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet di Federico Fellini. Invece, grazie ai miei due amici professori, Dario e Umberto, grazie alla tecnologia radioterapica, grazie a Gesù, sono ancora qua, pieno di energie e di sogni, al punto da sfidare problemi più grandi di me.
Di più, Il 2019 è stato un anno entusiasmante. E’ finito finalmente il libro, grazie soprattutto a Giovanni Maddalena. Ho realizzato un sogno nascosto, cioè creare un settimanale digitale limitato ai soli abbonati (però l’abbonamento è gratuito), scriverlo insieme a un gruppo di giovani amici che sono diventati parte della mia vita, e io, mi auguro, della loro. Sull’onda dell’entusiasmo, con un numero di abbonati al di sopra di qualsiasi previsione, noi quattro gatti ci consideriamo attori, seppur ai margini, del prossimo grande palcoscenico su cui si giocherà il risiko dell’editoria giornalistica. Pensate la follia. Risiko innescato da Exor e dalle prossime mosse che digitalizzeranno il mondo dell’informazione italiana. Mi chiedo: e se questo business, finora protetto dalle melodie stile Bella Ciao, si ritrovasse a dover cantare (in inglese) Pietà l’è morta di Nuto Revelli, come reagiranno i colleghi? Hanno un piano “B”?
L’idea che, follemente, perseguo da tempo della “gratuità consapevole” riuscirà a giocare un ruolo in questo grande risiko? Un libro come Il Signor CEO, scritto con Tommy Cappellini, nato nella pancia della Rete, con un linguaggio innovativo, distribuito in modo originale (fuori tutti gli intermediari, Amazon in primis), riuscirà a diventare un riferimento per il mondo dell’editoria libraria? Come vedete sono avviluppato da sogni folli.
Se avete pazienza nel mio discorso di fine 2020, Gleason permettendo, saprete come è andata. Scambiandoci un segno di pace e tiremm innanz.
IL 2020? UN GOMITOLO DI PROBLEMI, GONFIO DI INCERTEZZE, CHE GALLEGGIA IN UNO STAGNO
Lo confesso, non ho la più pallida idea di come sarà il 2020. Dovrei tacere, invece, come mi succede ogni anno dal 2011, vengo assalito dall’ambizione di fare una previsione. E’ una previsione ripetitiva, sempre la stessa: “L’anno che verrà sarà peggio del precedente”. Il fatto curioso è che io ho una visione positiva della vita, amo profondamente l’Italia, stimo i miei concittadini, ogni anno spero si sia toccato il fondo, che quello passato sia stato l’ultimo anno negativo, che le attuali leadership prendano atto del loro fallimento, e con dignità tolgano il disturbo, e si possa così ripartire, certo, con un altro modello economico, politico, culturale.
Molti anni fa scrissi che il criterio secondo cui il Ceo capitalism, in questo suo autunno, sceglie le sue leadership, sia politiche (Premier e ministri), sia laiche (CEO) è quello del “peggiore”. Così quando lo vogliono sostituire, uno peggiore di lui, più servo di lui, lo trovano sempre nel sottobosco o politico o accademico o della magistratura o dell’alta burocrazia. Questo modello però con Giuseppe Conte si è inceppato. Forse causa il periodo estivo, non hanno trovato nessuno politicamente peggio di lui. Hanno avuto però un’intuizione geniale. Loro sapevano che costui, politicamente parlando, così come i suoi predecessori, era fatto di olio, argilla, cera, zolfo. Era cioè plastilina, pongo. Bastava una riverniciatura ideologica sinistra ed era fatta. In letteratura sarebbe stato Humbert-Humbert di Vladimir Nabokov nome doppio, stante la sua personalità doppia, doppiamente insidiosa.
Torniamo al punto, come sarà il 2020? L’analisi di sistema più interessante è quella di Credit Suisse. Il suo Report ha un titolo colto “Dopo tutto, resilienza”. Resilienza, nell’accezione di capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento, è parola oggi molto di moda, perché è termine cortigiano per eccellenza. Credit Suisse è stato cauto sulla guerra commerciale Usa-Cina, prudentissimo sui risvolti alle elezioni americane, infine la sintesi è stata: ”I mercati globali daranno prova di notevole resilienza (rieccola!) di fronte a queste sfide (scrive sfide, in luogo di crisi)”.
Leggetelo, il Report spazia dalla geopolitica, alla crescita economica, all’inflazione, ai tassi di interesse, al reddito fisso, alle azioni, all’immobiliare, alle materie prime, ai cambi. Su ciascuna di queste afferma, con grande competenza economica, ovvietà ovvie. E’ il classico documento cortigiano, già usato ai tempi della dinastia cinese Tang (618-907 dopo Cristo, l’Impero antico più simile all’Europa franco-tedesca di oggi), proprio dagli eunuchi, per tranquillizzare ogni anno l’ottuso Imperatore in sede di bilancio consuntivo. L’Impero ogni anno degradava, i cittadini se ne accorgevano, ma temevano gli eunuchi, la loro ferocia. Un giorno, stufi, dissero basta, il bubbone scoppiò, arrivò il generale Zhu Wen, trucidò tutti gli eunuchi. Quindi l’Imperatore. Prese il suo posto. Così finì la dinastia Tang.
Molte le similitudini con la realtà di oggi. Aumenta il numero dei cittadini senza lavoro o con lavori idiota-precari, il processo di trasformarli in consumatori zombie mantenuti dal reddito di cittadinanza procede in modo implacabile, così come sostituirli con africani che appena toccano terra diventano schiavi da pagare come ai tempi di Via col Vento. Intanto, gli eunuchi di regime si fanno sempre più arroganti. Come finirà? Nessuno lo sa, quindi inutile agitarsi. L’unica cosa saggia è attendere, qualcosa succederà. In conclusione:
1 Volete star sereni? Affidatevi alla previsione politicamente corretta di Credit Suisse: “Il 2020? Una recessione è improbabile alla luce dell’attuale sostegno della politica monetaria, dell’ampio credito, del leggero allentamento fiscale, dei bassi prezzi del petrolio”
2 Volete capire come potrebbe andare? Fatevi delle domande su come siamo ridotti: “IL 2020? Un gomitolo di problemi, gonfio di incertezze, che galleggia in uno stagno”
Buon Anno a tutti.
LA “CARITA’ PELOSA” DEI RICCHI
Come di consueto, negli ultimi giorni dell’anno, Bloomberg pubblica il dato consuntivo di quanto siano aumentati i patrimoni dei 500 uomini (ci sono anche donne, ma nessuna nella primissima fascia) più ricchi del mondo. E io, nel mio piccolo, ci scrivo ogni anno un Cameo. Scopriamo così che, in un anno, i patrimoni di costoro sono cresciuti del 25%, avendo guadagnato 1.900 miliardi $, poco meno del debito di 60 milioni di sciamannati italiani. Ecco i numeri dei big five: Jeff Bezos 116, Bill Gates 113, Bernard Arnault 105, Warren Buffet 89, Mark Zuckerberg 79. Chi stila la classifica, pensa te, Michael Bloomberg ne ha 56, quindi è affidabile. Il pericolo per costoro? Da ricchi diventare riccastri. Come evitarlo? Facendo carità seppur “pelosa”. (chi vuole approfondire digiti “carità pelosa”, ci trova un mondo affascinante).
Invito quel manipolo di economisti esaltati che mi scrivono ogni anno per polemizzare con me sul merito di quei patrimoni, di non farlo, tanto io non rispondo. E poi, sono abbastanza vecchio e scafato per non cadere nelle loro fanciullesche trappole comunicative. Mai mi permetterei di fare alcun commento sui patrimoni di sociopatici di successo, tengo nipoti. Costoro sono talmente lontani dal mio mondo che provo pena per loro. Non per i quattrini che posseggono, non per come li hanno fatti, ma di come dev’essere triste la loro vita di benefattori. Penso ad esempio al povero George Soros, al quale va tutta la mia simpatia umana per gli insulti che riceve in ogni parte del mondo. In fondo, la sua “carità pelosa” auspica solo una società “aperta”, mica “chiusa”.
Penso al povero Bill Gates costretto a passare la vita alla disperata ricerca di dare in beneficienza parte di questi soldi. Nel mondo magico del Ceo capitalism, il modello economico, politico, culturale che vi è sotteso è talmente geniale che ha preso il sopravvento sui gestori. Ecco come funziona il modello “Il tuo patrimonio aumenta a tua insaputa, e senza che tu faccia assolutamente nulla perché ciò avvenga”. Sarebbe come se un operaio a 67 anni, il primo gennaio, andasse in pensione e il 31 dicembre si trovasse la pensione aumentata del 25%. Questo è il dramma di costoro, l’arricchimento automatico, a loro insaputa. Ovvio che sia l’orgoglio, sia la loro sensibilità umana ne siano colpiti.
Torniamo a Bill. Per lui fu imbarazzante quando volle regalare 100 milioni di galline ai boliviani poveri, ricevendo l’immediato disprezzo del Presidente Evo Morales che lo considerò un affronto a un Paese che è ai vertici mondiali del rapporto polli/umani. A gioco lungo, mal gliene incolse (a Morales, of course), tre anni dopo sarà deposto e ora è esule in Messico.
O, per esempio, al povero Jeff Bezos. Dopo una vita esaltante, focalizzata sul creare valore, come dicono loro, una vita esemplare come marito (lavoro-casa-lavoro), ha avuto un attimo di debolezza con un’altra donna (modo elegante per dire: si è fatto una banale “sveltina”) e scoppia il dramma. La moglie, per perdonarlo (si fa per dire), ha preteso e ottenuto una trentina di miliardi, diventando così, d’emblée, mito dei social e 30° in classifica. Classifica che, come si può evincere da questo episodio, premia il merito e la velocità di execution, qualunque sia la modalità con cui il patrimonio sia stato costruito.
Prosit!
IL CENONE DI NATALE DI DUE VECCHI INFAMI
Ecco il nostro cenone a due di questo Natale 2019 in quel di Bordighera, ove vivo una serafica convalescenza. Ho voluto che fosse un cenone, anche se, come vedrete dal menu, il termine è francamente eccessivo. E’ servito però, sia per darci un certo status giovanilista, sia per motivarci positivamente. Ricordo che anche i vecchi hanno tanto bisogno di spinte emozionali per proseguire il loro cammino di vita, via via che la discesa si fa più tortuosa e le forze ti abbandonano. Come avviene, con energie in eccesso, per i giovani nella fase della salita della vita.
Volevo che il cenone fosse “politicamente scorretto” per prenderci una fanciullesca rivincita verso quegli intellettuali e politici di regime che continuano a umiliare mia moglie (82) e me (85) considerandoci due vecchi infami ai quali lo Stato eroga, da troppi anni, una pensione. Lo so che è sgradevole polemizzare proprio all’inizio di un nuovo anno, mi scuso con i lettori, ma non potevo non “togliermi il dente”.
Secondo costoro, proprio a Natale dovremmo vergognarci di sottrarre risorse e futuro ai giovani. Ciò che affermano, dall’alto della loro sterminata cultura economica e della loro miserabile intelligenza sociale, per quanto ci riguarda, è falso, quindi ignobile. La mia pensione è stata solo contributiva, quindi non sottrae nulla a nessuno, mentre con quella di mia moglie (risibile) ci compriamo una puntura del farmaco salvavita per il mio carcinoma. Comunque, stiano tranquilli costoro, da buone formichine noi campiamo con i risparmi di una vita. Però è Natale, dobbiamo essere buoni, quindi anche costoro hanno diritto, come tutti, al perdono natalizio. Volentieri lo impartiamo loro. E per associazione di idee, sorridiamo ricordando la nonna, impettita in mezzo all’aia, che al tramonto invitava le galline a ritirarsi nel pollaio con il magico: Sciò, Sciò.
Il cenone l’abbiamo ordinato a uno dei nostri due ristoranti preferiti, uno di mare (Torrione, Vallecrosia) l’altro di montagna (Italia, Castel Vittorio). La cena l’ha preparata il giovane Samuele dell’Italia, secondo il menu che avevamo deciso noi. Sono andato personalmente a ritirare la cena, gabbando così la multinazionale del caporalato food, che per una volta non ha potuto incassare la sua tangente esentasse. L’abbiamo consumato con tanto di tovaglia di Fiandra, seppur un po’ ingiallita dal tempo, e alla luce di quattro candele decoupage. Le ho però spente all’antipasto. Non potevo mangiare cibi nobili immerso in un’atmosfera kitsch da salotto ZTL.
Ecco il menu: 1 Aperitivo con tocchetti di farinata; 2 Turtun di Castel Vittorio (torta salata di verdure ed erbe selvatiche); 3 Tazza di brodo di gallina; 4 Gallina nata, vissuta, infine bollita a Castel Vittorio, come il bagnetto ligure che l’ha esaltata; 5 Stroscia all’olio, dolce del Cinquecento dedicato a San Gregorio; 6 Un rosso giovane, U Picettu (in italiano Pettirosso) di Durin (Ortovero, Albenga), dai profumi che ricordano quelli della brezza marina e della macchia mediterranea che circonda le viti.
E’ stata una splendida cena, e una grande soddisfazione: l’obiettivo per il quale il menu era stato concepito, è stato raggiunto, e pure alla grande. Non uno straccio di osceno cibo globalizzato è entrato in casa nostra, non un euro ha lasciato la Liguria. Siamo rimasti due vecchi, con un Natale in più, ma non infami, semplicemente felici.
Buon Natale a tutti.
LETTERINA AL GESU’ BAMBINO DEI NONNI
Quand’ero piccolo, i primi anni Quaranta, c’era la guerra, i miei genitori, a Natale mi invitavano a “scrivere una letterina a Gesù Bambino” e all’Epifania a “scrivere una letterina alla Befana”. Come figlio di genitori antifascisti (schedati) a Gesù Bambino chiedevo “fai che finisca la guerra” (altri, la quasi totalità, scrivevano “fai che il Duce ci porti alla vittoria”). Alla Befana invece scrivevo: “sono stato bravo, non merito il carbone ma i dolcini” (non ho mai capito perché, ma ero terrorizzato di ricevere il carbone).
Ci sono momenti in cui mi sembra di essere tornato a quel tempo. Con una differenza, questi non sono più nero d’orbace vestiti, indossano capi firmati, felpe, camicie bianche, jeans, ma principi e comportamenti sono rimasti quelli d’allora.
Ora sono vecchio, onestamente, a titolo personale, non ho nulla da chiedere a Gesù Bambino, con me è stato fin troppo generoso, lo è stato con mia moglie, con i miei figli e nuore, anche con i miei nipoti ha cominciato bene.
Scrivo allora al Gesù Bambino dei Nonni. (oggi così disprezzati da queste ridicole élite giovanilistiche; provo tristezza vederli “mettere contro” giovani e vecchi, lo dico per loro, non certo per me):
“Caro Gesù Bambino dei Nonni, tu che da piccolo sei stato intrepido e spensierato, e che tutto puoi, dai ai nostri giovani un lavoro, rispettoso sia dell’essere uomini, sia dell’ambiente circostante. Un lavoro dignitoso, quindi non precario e mal retribuito come avviene ora. Evita che i nostri giovani si trasformino, come purtroppo sta accadendo in molte parti del Nord e dell’Oriente del mondo, in “idioti consumatori seriali”, disposti a ingurgitare qualsiasi schifezza globalizzata, fisica o morale poco importa, che li porterà a diventare degli zombi. Per evitare questa prospettiva, aiutali invece ad essere lavoratori orgogliosi del proprio lavoro e del proprio Paese. A te, caro Gesù Bambino dei vecchi, chiedo solo di dare loro un contesto, esente da vecchie ideologie riciclate e digitalizzate, nel quale invece il lavoro sia al centro della loro vita e l’ascensore sociale vada su e giù, in base ai meriti di ciascuno. (E’ insopportabile che “figli e nipoti di” arrivino all’attico senza competere). Poi, ciascuno di loro, in base all’impegno che ci metterà, se la caverà di più o di meno, ma l’equità sarà stata rispettata. Solo così possiamo dirci civili, democratici, liberali, e chi lo vuole, pure cattolici. Grazie di cuore.”
GRETA DIXIT: il 2020 SARA’ L’ANNO DELL’AZIONE
Recentemente ho fatto outing. A titolo personale (non coinvolgendo certo Zafferano.news) sono uscito dal limbo decisionale delle chiacchiere, o colte o ironiche o ciniche, e mi sono schierato con Greta Thunberg, e con la teoria antropogenica. Il suo linguaggio del corpo mi ha convinto: trasuda al contempo coraggio e sconforto, sconforto e coraggio. Chiedo solo, dopo l’outing, di essere esentato dalle ripetizioni stucchevoli dei rischi ambientali: basta sfilate, convegni, scioperi del venerdì, articoli e dibatti conclusi con gli orrendi: “bisognerebbe”, “dovremmo”, etc. etc. Di qui in avanti, pretendo solo execution, costi quel che costi in termini di PIL e di qualità della nostra vita. Se il CO2 è una minaccia mortale per l’umanità paghiamo tutti i prezzi necessari per salvare la Terra. Quindi ONU, UE, Governo mi impongano cosa devo fare in concreto per abbattere il CO2 del 50% entro il 2030. Per esempio, quale riduzioni fare sui voli aerei (kerosene) e del cibarsi di carne bovina (flatulenze delle vacche). Qualsiasi sacrificio, ma basta chiacchiere.
Chiedo alla politica di lasciar perdere il “volontariato”: è una sega mentale per birbanti. Prendere impegni firmando ogni carta per poi bellamente disattenderla, è atto ignobile. Come quello del satrapo Xi Jinping: va a Parigi a firmare gli impegni sul clima, se ne vanta, poi torna a Pechino, e con la scusa, dice lui, che deve mantenere 1,3 miliardi di sudditi zombi, pianifica la costruzione di centrali elettriche a carbone (a carbone sic!) per una potenza di 148 gigawatt, pari alla capacità installata dell’intera Europa che nel frattempo vorrebbe chiuderle. Una buffonata, ma tutti zitti, il fatturato giallo vince su tutto.
Altrettanto facciano i giovani. Basta slogan, cartelli, cortei e subito dopo cibarsi dei soliti hamburger flatulenti e, tornati a casa, mettere l’aria condizionata o il riscaldamento a tavoletta. E il giorno dopo volare a Londra spendendo i soliti risibili 19 €. Perché questa è la sgradevole realtà, andare in piazza, anziché a scuola è eccitante, ma fare sacrifici giammai.
Cara Greta, nell’ultima visita a Torino hai detto la frase che mi attendevo: Il 2020 sarà l’anno dell’azione. Sacrosanto, basta chiacchiere, basta appelli, abbiamo bisogno solo di execution. Madrid ha dimostrato che i tuoi discorsi sferzanti verso la Politica (e verso i loro burattinai cino-californiani), quando si tratta di aprire il borsellino lasciano il tempo che trovano. Ti prego, intervieni sui tuoi giovani amici dichiarando, per esempio, la verità sulle mitiche auto elettriche. Sono confusi al punto che credono sia alle bugie di Elon Musk, sia alle fake truth che i diversi establishment propinano loro. Ancora non hanno capito come dietro la presa della spina di ricarica c’è solo schifoso combustibile fossile. E così sarà per moltissimo tempo ancora. Si tratta di un’oscena finzione markettara, anticipare un veicolo elettrico quando ancora non esiste il carburante pulito per la ricarica è una presa in giro.
Greta fai passare invece il principio di verità “Se l’energia non è rinnovabile, lo zero emissioni è solo allo scarico”. Questa è la realtà, oggi e domani, nella sua brutalità. Spiega loro (la tabella dell’Ente tedesco Adac, riportata da La Stampa è esaustiva) che senza il 100% di elettrificazione rinnovabile, l’auto elettrica ha un bilancio ambientale impresentabile, addirittura dannoso per il clima. Due le condizioni irrinunciabili: 1 che la produzione di auto avvenga in modo sostenibile (per ora non è così, oggi produrre un’auto elettrica comporta emissioni da 1,5 a 2,5 volte superiori rispetto a quelle diesel e benzina); 2 che l’energia con cui vengono rifornite non derivi da fonti fossili, com’è oggi, perché altrimenti esentiamo solo le ZTL a scapito delle periferie e del territorio: un suicidio sociale, che potrebbe portare alla rivoluzione (degli automobilisti, e non solo, vedi gilet gialli).
Cara Greta, tu e i giovani della Gen Z (e pure i Millennial) avete bisogno di combattere per un grande obiettivo: vivere in un mondo dignitoso, in termini di clima. Noi vecchi lo stiamo via via capendo, anche noi ora vogliamo un mondo dignitosamente pulito. Ci convincerete del tutto se voi giovani, per primi, farete tutti i sacrifici per cambiare l’attuale stile di vita (e se il PIL diminuisce un pò, per un certo tempo, pazienza). Auguri di cuore, ragazzi!
Il mio Signor Ceo è l’irriverente giullare del capitalismo digitale. (Di Giorgio Gandola)
TORINO IN PIAZZA: DAL 1939 (MUSSOLINI) AL 2019 (MADAMIN E SARDINE)
E’ meraviglioso per un apòta come me (noi apòti non ci fidiamo né della destra, né della sinistra, né del centro) vivere a lungo, specie se nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Se vivi a lungo e sei stato sempre stato te stesso, da “testimone” ti fai “memoria”. E’ bello. A questo punto anche i birbanti, voltagabbana strutturali di cui è ricco il mondo, sono costretti a rispettarti.
Piazza Vittorio Veneto di Torino è stata per molti anni al centro della mia vita, in parte lo è tuttora. Al civico 9, in una portineria, ci sono nato nel 1934. In quei 15 metri quadrati, con i miei nonni e genitori, ci ho passato l’infanzia e l’adolescenza. Sono stato felice, molto.
Il 14 maggio 1939, a 5 anni, mia mamma mi mise a cavalluccio, così potevo, dai portici, vedere una massa impressionante di persone che non solo riempivano la piazza (anche allora si diceva, “pressati come sardine” e Wikipedia avrebbe garantito ottant’anni dopo che la piazza può contenere fino a 100.000 persone). C’era un palco, con un signore appena arrivato da Roma, vestito di nero d’orbace che urlava, si agitava, e i centomila lo applaudivano freneticamente. C’era tanto rumore, questo il mio unico ricordo. Era la Torino fascista, diceva la mamma, noi antifascisti “schedati” eravamo quattro gatti, operai Fiat ed ebrei, il nonno era provvisoriamente in gattabuia, ci sarebbe rimasto fino alla partenza per Roma del treno del Duce. Oggi, mio nonno (voleva lo chiamassi Nonno Stalin) sarebbe un eroe. Molti di questi attuali antifascisti di ritorno dichiarano di aver avuto un nonno antifascista, chissà se sarà poi vero.
Sei anni dopo, il 2 maggio 1945, piazza Vittorio era di nuovo strapiena, c’erano gli stessi del maggio 1939, solo che in pochi mesi da fascisti erano curiosamente tutti diventati antifascisti, alcuni, indossando un paio di pantaloni di velluto e un giacca di fustagno, si dichiaravano addirittura partigiani, tutti erano ora filo angloamericani (avevano dimenticato che poco prima urlavano “Dio stramaledica gli inglesi”).
Questa volta però mia mamma era in prima fila, con me per mano: da “ex schedati” il podio stradale ci spettava. Mi scuso per l’autocitazione, ecco l’incipit del mio libro America, un romanzo gotico. “Avevo dieci anni quando incontrai l’America. La sua faccia era nera, più nera di quella degli spazzacamini. Un gigantesco sergente nero marciava in testa al suo reparto, io undicenne salutavo timido i liberatori con una bandierina americana di carta. Lui sorrise, aveva una bocca larga, enorme, mi diede una barretta di cioccolato e una carezza sulla testa”. Il sergente nero divenne il mio mito, era, e sarà sempre, il mio coraggioso “partigiano liberatore”.
Nel dopoguerra i torinesi, nel frattempo divenuti comunisti, con qualche sfrido di liberali dell’alta borghesia ex monarchica, si ritrovavano spesso in piazza Vittorio, il 1° maggio tutti nel suo grande ventre. Da apòta non partecipai mai attivamente a nessuna piazza, delle piazze mi piacevano però le atmosfere, per cui rimanevo ai suoi margini per respirarle. Ora abito in una casa di ringhiera adiacente a piazza Castello, qualche centinaio di metri da dove sono nato, e mi ritrovo un’altra piazza (Castello), altri palchi, altri oratori, che urlano e si agitano. E’ cambiato solo il look, non più il nero d’orbace, o le tute blu del dopoguerra, ma i colori borghesi dell’arcobaleno, tipici del Ceo capitalism. Si danno nomi curiosi, per esempio, “popolo viola”, “girotondini”, a volte “madamin”, ora “acciughe”. Non ho mai capito, come ovvio per mie carenze culturali tipiche dell’apòta, chi sono, cosa vogliono, dove sono diretti.
Però, lo confesso, li trovo tutti carini.
TORNIAMO UMANI
Quando non ne posso più del modo in cui fanno giornalismo alcuni quotidiani del mainstream nostrano, mi rifugio nel Corriere del Ticino di 100 anni fa (10 dicembre 1919). Prendiamo un caso attuale. All’inaugurazione della Scala l’arrivo del Presidente Mattarella è stato salutato da un lunghissimo applauso da parte del pubblico presente. Una non notizia (al limite si poteva scrivere “applausi scroscianti all’arrivo del Presidente”). In un teatro vale il principio che gli spettatori, avendo pagato il biglietto, hanno il diritto di applaudire o di fischiare a loro piacimento gli attori o i cantanti. E’ evidente che se vuoi applaudire, ed è giusto farlo trattandosi oltretutto di una persona perbene per eccellenza come il Presidente Mattarella lo fai prima dell’inizio dello spettacolo, mentre applausi o fischi agli attori-cantanti li fai nel durante o alla fine dello spettacolo. Nello specifico gli spettatori erano tutti coinquilini del “cuore del cuore” della ZTL milanese, forse produttori di una grande fetta del PIL italico, e pure persone educate e colte per status e censo. Si identificano in lui? Bene che lo vogliano sottolineare.
Quando l’applauso però supera un tempo ragionevole (un paio di minuti sono lunghissimi) e puntano a battere il record (sic!) del 2018, allora scivoliamo nel mondo della volgarità politica. Personalmente al posto del Presidente mi sarei trovato in forte imbarazzo. E’ chiaro l’apprezzamento per il paio di minuti iniziali che esprimono affitto sincero verso l’autorità massima del Paese, ma quelli che seguono, atti a battere un ridicolo record, no. Sono applausi intrisi, ripeto, di volgarità politica. Che tristezza, l’élite più rarefatta del Paese, in preda a un virus intellettualmente devastante, applaude il Presidente per fischiare l’ex Ministro dell’Interno. A questo siamo giunti. Sono senza parole.
Ecco come cent’anni fa il Corriere del Ticino racconta un episodio di cronaca riferito a un impiegato delle Ferrovie, dando come titolo Crisantemi: “A soli 31 anni, quando sorride il fiore della gioventù, l’affetto della giovane sposa, l’amore di tre vezzosi figlioletti, è triste, immensamente triste, il dover troncare la propria esistenza. E così purtroppo all’alba di stamane, dopo 7 giorni di malattia violenta (pleurite), rapiva all’affetto dei suoi cari il Signor Tschumi Goffredo che fu per 5 anni impiegato addetto al Capo Stazione e da 7 contabile apprezzato e stimato presso l’Ufficio Merci. Alla giovane desolata vedova, ai figlioletti, giunga, in sì crudele momento, l’espressione del vivo dolore, commiserato a sì grave lutto”. Tschumi era un semplice addetto alle merci ma si osservi l’umanità e la sincera partecipazione di questo sconosciuto redattore della cronaca cittadina. Questo è giornalismo autentico perché partecipato con il cuore.
Che dire? Resettiamo appena possibile questo periodo culturalmente ignobile, si ritorni ai valori alti del popolo e della borghesia colta, torniamo umani e per ora ... tiremm innanz.