Viene preparato con tagli di scarto del maiale, in particolare quelli del muso, cosa che lo differenzia dal cotechino, conciati poi con spezie quali cannella, pepe, noce moscata, e quant’altro segreti e tradizione familiare abbiano perfezionato nel tempo.
Nel Veneto la sua “morte” è sopra fette di polenta abbrustolita, come purea di patate o cren, una preparazione a base di rafano, il cui retrogusto acido e leggermente piccante fa da ottimo contraltare alla grassa struttura del musetto. Un tempo il cren veniva usato per stimolare l’appetito e, infatti, assieme a lui, una fetta di musetto tira l’altra.
Altra variante con cui si gusta il musetto sono le verze sofegae, dette così perché vanno sottoposte a lenta cottura dopo le prime ghiacciate, così da risultare appassite (cioè sofegae).
In Friuli, invece, tradizione vuole che il musetto vada abbinato, oltre che alle verze, anche alla brovada, una lavorazione delle rape locali particolarmente intrigante. La conservazione delle rape sotto aceto era già conosciuta dai romani, tanto è vero che ne parlava Apicio, in quanto Aquileia, dopo Roma, era una delle principali città dell’Impero. Vengono messe a macerare entro grossi tini di legno assieme alle vinacce, quindi dopo la vendemmia, acqua, sale e pressate con un coperchio di legno e pietra per almeno un mese per ottenere una adeguata fermentazione. Da bianche con il colletto viola assumono il colore rosato delle vinacce stesse. A questo punto si grattugiano con il gratì, un arnese di legno con lame metalliche. Messe a cuocere lentamente con pesto di lardo e cipolla sono pronte quando assumono un colore marrone di castagna. Si maritano poi al meglio con il musetto. Un bene e una tradizione preziosa, tutelata da apposita disciplinare DOP. In Carnia, invece, dove non è possibile la coltivazione della vite, la brovada, tradizionalmente, viene preparata con le pere locali, dette di San Luigi.