Poi, finito il volo, in breve, se ne andava, in ampio anticipo. Forse, come aveva detto lui stesso del suo amico Umberto Eco, l’ironia era il retaggio dell’associazionismo cattolico giovanile di entrambi, quell’abitudine a tenere banco in gruppi numerosi, a stare in una compagnia che non può appesantirsi troppo perché ha già contenuti molto seri di suo. Il cattolicesimo, e il cristianesimo più in generale, erano comunque sempre il fuoco dei suoi interessi. A lezione diceva che, se fosse stato ancora cattolico, avrebbe ripreso a studiare S. Tommaso riga per riga, per dimostrare che era vero. Il pensiero debole, la sua versione del postmoderno, doveva molto a una lettura della storia come progressivo secolarizzarsi del sacro, che aveva il suo momento apicale proprio nell’Incarnazione in cui Dio stesso decideva di secolarizzassi, di buttarsi via. Alla fine, dopo essersi disperso nei mille rivoli della storia, il sacro ricompariva in sprazzi di apertura, che coincidevano con infinite nuove interpretazioni, con la solidarietà sociale e con la liberazione individuale.
Una volta l’avevo rincorso fuori da lezione per dirgli che ero d’accordo con quanto aveva scritto il giorno prima sulla I Guerra del Golfo, sicuramente qualche espressione di condanna. Mi aveva guardato e poi aveva detto: “sì, ma non so più se sono così convinto”. Il postmoderno vattimiano era così: leggero, ironico e auto-ironico su credenze e convinzioni, anche se con profonda nostalgia per un mondo di significati più universali. L’anno scorso l’avevo incontrato alla presentazione della sua opera omnia. Non aveva parlato, se non per dire che non aveva niente da aggiungere a quanto detto dagli oratori. Uno di essi, peraltro, aveva riferito una conversazione privata di qualche mese prima in cui aveva detto che il problema serio da pensare è sempre il cristianesimo.
Non stento a credere che fossero le sue parole. Lì era il punto infuocato della questione, dove sentiva di non aver pensato tutto, di non aver terminato la sua opera. Il punto dolente di quel lavoro, che percepivamo anche da studenti, è proprio la lettura progressiva e inevitabile del secolarismo che finisce nel nichilismo. Una lettura che alla fine si rileva determinista: non c’è modo di sfuggire all’inesorabile perdita di sacralità e valori. Tutto rotola in una direzione prefissata e progressiva, dove l’essere si perde e si annulla, facendo scomparire ogni significato. In fondo, è una lettura che si scontrava con la leggerezza, l’ironia, la libertà, la molteplicità delle interpretazioni. È tutto va sempre in una direzione inarrestabile, siamo davvero liberi? Forse, anche a lui, come a noi studenti, i conti non tornavano del tutto.
Ora, a raccontarlo sembra preistoria. Il pensiero debole alla Vattimo e il nichilismo sono da tanto tempo finiti nei libri di storia della filosofia. Sono stati sostituiti da una koiné realista, che nelle sue frange migliori si occupa di metafisica ma in quelle peggiori diventa una rigidità asfittica e moralista. Quando la cultura woke impone parole e stilemi, mi viene in mente Vattimo e la sua infinita libertà di interpretazione: anything goes, tutti i sniffiate sono accettabili. All’epoca, da studente, difendevo sempre la rocciosa realtà. Mi sembrava che le infinite interpretazioni equivalenti fossero contrarie al senso comune. Dopo 20 anni di realismo analitico spesso privo di visione e significati, e sfociato nel moralismo woke, oggi forse occorre difendere un po’ di pluralismo interpretativo. Sono certo che Vattimo coglierebbe l’ironia della situazione.