Pensieri e pensatori in libertà


La Crusca, il politicamente corretto e la metafisica

Il 20 marzo scorso il Corriere della Sera ha pubblicato stralci di un parere dato alla Corte di Cassazione dalla celebre Accademia della Crusca riguardo all’uso del linguaggio politicamente corretto nell’amministrazione pubblica: asterischi, schwa, maschili e femminili e tutto l’armamentario linguistico di ciò che chiamiamo politicamente corretto 2.0, il politicamente corretto dei nostri giorni.

Il parere è conforme del resto a un lungo documento in proposito, più generale, che trovate qui.

Se togliamo la prudenza e gli apprezzamenti per il desiderio di tutti di essere più inclusivi e di capire l’importanza della giustizia sociale, rimangono alcune conclusioni e alcuni principi importanti. Le prime sono: no all’uso di schwa e asterischi perché in italiano si legge ciò che c’è scritto e quindi non si capisce come si leggerebbero questi segni linguistici; no a forme strane di neutralizzazione come “caru tuttu”; no anche alla duplicazione di ogni termine come “italiani e italiane” che fa diventare ogni discorso ridondante. Sì invece alla femminilizzazione dei nomi, laddove possibile, soprattutto di professioni come nei casi di medica, avvocata, magistrata; sì a mantenere il maschile plurale come inclusivo di entrambi i generi, “cari amici e amiche”.

Le conclusioni sono di buon senso, direbbe Manzoni, o di senso comune, secondo la filosofia realista anglosassone, cioè sono risposte che rispettano la ragionevolezza. Tuttavia, più interessanti ancora sono le raccomandazioni che invitano a non seguire “ideologie legate al linguaggio di genere” che propongono “correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale”, sulla scorta di “una radicalizzazione legata a mode culturali”. Tali raccomandazioni si fondano su due principi: la Crusca ne esplicita solo uno, non so se per pudore o per mancanza di approfondimento filosofico.

Il primo principio è che la lingua evolve storicamente e naturalmente. Non si cambia la lingua per editto – neanche quando si vuole far tornare l’italiano a tutti i costi – né tantomeno per pressione sociale di minoranze intellettuali. La lingua è un organismo che segue le forme di vita, alle volte si identifica con la vita se per una parola si può vivere o morire (siamo a Pasqua, a proposito di parole e processi celebri), e cambia lentamente e autonomamente, come tutti gli organismi. Il linguaggio non è né rigido e immutabile meccanismo neuronale, come vorrebbe Chomsky che lo considera un software messo lì dalla natura cieca, né malleabile a seconda del potere come una palla di gomma, come vorrebbe la filosofia politica postmoderna francese. Il linguaggio è parte di noi, è un gesto, un’azione (principalmente dell’apparato fonatorio) dotata di significato. Ce ne accorgiamo quando impariamo una lingua straniera: dobbiamo imparare a muovere polmoni, lingua e bocca in un certo modo, come per cantare o per suonare uno strumento a fiato, con il fine di esprimere un significato. Certo, possiamo violentemente limitare il linguaggio a pochi suoni e pochi significati per editto, ma soffrirà e, prima o poi, si vendicherà, in privato o in pubblico, con lapsus, strafalcioni, involontarie ammissioni.

Il secondo principio, che l’Accademia cinquecentesca non si azzarda a proporre, ma è intrinseco a ciò che esprime, è che la lingua è parte della realtà, come lo sono le parole i significati. Non la possiamo comandare per editto perché le parole e i loro significati sono parte di una realtà molto più vasta di quella che si vede, si sente, si tocca: è una realtà metafisica. Ma la realtà metafisica, come quella fisica, non si può mutare a piacere: si può collaborare al suo sviluppo, come a quello di una persona, ma non si può esserne padroni. Senza questa concezione, ci si affanna invano sulla lingua, e si è oggetto della medesima ironia riservata a Dante quando cerca di squadrare la giustizia divina: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna/ per giudicare di lungi mille miglia/con la veduta corta di una spanna?” (Par. XIX, 79-81).


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In questo numero hanno scritto:

Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite