Il parere è conforme del resto a un lungo documento in proposito, più generale, che trovate qui.
Se togliamo la prudenza e gli apprezzamenti per il desiderio di tutti di essere più inclusivi e di capire l’importanza della giustizia sociale, rimangono alcune conclusioni e alcuni principi importanti. Le prime sono: no all’uso di schwa e asterischi perché in italiano si legge ciò che c’è scritto e quindi non si capisce come si leggerebbero questi segni linguistici; no a forme strane di neutralizzazione come “caru tuttu”; no anche alla duplicazione di ogni termine come “italiani e italiane” che fa diventare ogni discorso ridondante. Sì invece alla femminilizzazione dei nomi, laddove possibile, soprattutto di professioni come nei casi di medica, avvocata, magistrata; sì a mantenere il maschile plurale come inclusivo di entrambi i generi, “cari amici e amiche”.
Le conclusioni sono di buon senso, direbbe Manzoni, o di senso comune, secondo la filosofia realista anglosassone, cioè sono risposte che rispettano la ragionevolezza. Tuttavia, più interessanti ancora sono le raccomandazioni che invitano a non seguire “ideologie legate al linguaggio di genere” che propongono “correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale”, sulla scorta di “una radicalizzazione legata a mode culturali”. Tali raccomandazioni si fondano su due principi: la Crusca ne esplicita solo uno, non so se per pudore o per mancanza di approfondimento filosofico.
Il primo principio è che la lingua evolve storicamente e naturalmente. Non si cambia la lingua per editto – neanche quando si vuole far tornare l’italiano a tutti i costi – né tantomeno per pressione sociale di minoranze intellettuali. La lingua è un organismo che segue le forme di vita, alle volte si identifica con la vita se per una parola si può vivere o morire (siamo a Pasqua, a proposito di parole e processi celebri), e cambia lentamente e autonomamente, come tutti gli organismi. Il linguaggio non è né rigido e immutabile meccanismo neuronale, come vorrebbe Chomsky che lo considera un software messo lì dalla natura cieca, né malleabile a seconda del potere come una palla di gomma, come vorrebbe la filosofia politica postmoderna francese. Il linguaggio è parte di noi, è un gesto, un’azione (principalmente dell’apparato fonatorio) dotata di significato. Ce ne accorgiamo quando impariamo una lingua straniera: dobbiamo imparare a muovere polmoni, lingua e bocca in un certo modo, come per cantare o per suonare uno strumento a fiato, con il fine di esprimere un significato. Certo, possiamo violentemente limitare il linguaggio a pochi suoni e pochi significati per editto, ma soffrirà e, prima o poi, si vendicherà, in privato o in pubblico, con lapsus, strafalcioni, involontarie ammissioni.
Il secondo principio, che l’Accademia cinquecentesca non si azzarda a proporre, ma è intrinseco a ciò che esprime, è che la lingua è parte della realtà, come lo sono le parole i significati. Non la possiamo comandare per editto perché le parole e i loro significati sono parte di una realtà molto più vasta di quella che si vede, si sente, si tocca: è una realtà metafisica. Ma la realtà metafisica, come quella fisica, non si può mutare a piacere: si può collaborare al suo sviluppo, come a quello di una persona, ma non si può esserne padroni. Senza questa concezione, ci si affanna invano sulla lingua, e si è oggetto della medesima ironia riservata a Dante quando cerca di squadrare la giustizia divina: “Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna/ per giudicare di lungi mille miglia/con la veduta corta di una spanna?” (Par. XIX, 79-81).