Pensieri e pensatori in libertà


Hopper al Whitney e la civiltà americana

New York odora di marijuana, che è diventata legale o quasi. Nessun americano è riuscito ancora a spiegarmi bene i passaggi della legge ma ci sono chioschetti con spinelli un po’ ovunque. 

Sanno così di marijuana gli ascensori e le porte girevoli dei palazzi, i gradini della subway e i vicoli della Lower Manhattan, l’antico centro che ospita il Financial District e i ferries che portano alla Statua della libertà e a Ellis Island, l’isola dove approdavano gli immigrati, un po’ inizio di libertà e un po’ inferno di detenzione.

Al Whitney Museum, il più americano dei musei, c’è una straordinaria mostra su Edward Hopper (1882-1967), uno dei più americani dei pittori. Nato nello stato di New York e vissuto e morto a Washington Square, nel village di Manhattan. Per chi non lo ricordasse, Hopper è quello dei bar della notte, delle persone che guardano fuori dal quadro, degli scorci interni degli appartamenti visti dalle finestre newyorkesi.

Hopper è un buon autore per capire il momento, in effetti. Il Covid anche qui è stato pesante. Molti locali hanno chiuso, tanti uffici – per comodità o per paura – non hanno ancora ripreso la vita full time in presenza. Gli americani sono più soli ancora di quanto non fossero, o meglio in compagnia dei loro cani, il cui numero è aumentato a dismisura. Hopper è un buon autore per questo momento perché è il pittore della solitudine. Nella maggior parte dei quadri c’è un solo personaggio e, alle volte, nessuno. Lo sfondo della vita sono spesso stanze borghesemente insignificanti, nelle loro geometrizzazioni standard. Oppure angoli altrettanto geometrici della New York industriale, senza grattacieli, che evidentemente gli dicevano poco. Dichiarava di essere attratto solo dall’orizzontalità.

I personaggi solitari di Hopper fissano il vuoto fuori dal quadro ma il loro sguardo è sempre indefinito, straniato. Non è un’attesa ma uno straniamento: guardano fuori perché delusi da ciò che c’è dentro. Ma non si sa se quel mistero che sta là fuori è poi un bene o un male. Guardano l’ignoto, con paura, forse, di essere nuovamente delusi.

Quando i personaggi sono più numerosi, che siano nei salotti borghesi o a teatro o al cinema, non si guardano mai tra di loro. Marito e moglie, la sera, sono assorti ciascuno nel proprio impegno, che non è interessante ma impedisce loro di parlarsi. A teatro pensano a cose diverse e guardano punti diversi. Una donna al cinema si allontana dalla compagnia, triste, e si mette a pensare sola in un golo, guardando in basso, in un abisso di incomunicabilità.

Intorno a questo deserto pulsava all’epoca di Hopper e pulsa ora New York con la sua folla di gente che corre ovunque, le sue strade sempre in moto, i suoi grattacieli in continua crescita. La tensione tra l’individualismo portato fino allo stordimento e allo straniamento solitari, da un lato, e la passione per la vita e la sua continua crescita, dall’altro, rimane lì, nel bilico in cui si trova la società americana in questo momento. Che cosa decideranno? Da quale lato andranno? È iniziata la fine della centralità della cultura americana o ce la faranno a essere ancora il luogo più vitale del mondo?

Non lo sappiamo. Staremo a guardare, con più curiosità e meno delusione dei personaggi di un quadro di Hopper.


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Zafferano

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In questo numero hanno scritto:

Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata