In quel momento tacqui, ma conservo ancora oggi il dubbio circa la possibilità di narrare un elemento visivo.
Ammetto subito di non essere ancora riuscito a contraddire questo assunto: me ne accorgo quando cerco di riassumere in 2500 battute prodotti figurativi. Tratteggio una simpatica pubblicità, costruita da splendide mostre e impeccabili creazioni, ma non trovo un appiglio linguistico che narri cosa mi ritrovo davanti agli occhi. Mi tornano alla mente gli “Exercices de style”di Queneau, dove l’autore descrive in 99 modi differenti un giovane sull’autobus, dipingendo sapientemente le avventure della quotidianità: il ragazzo ha il collo indaco, discute con un signore blu e si siede su un posto giallo. In un’altra versione, quella “animista”, il cappello diviene protagonista della narrazione ed emana voce umana, passeggiando all’altezza di un metro e sessanta dinanzi alla Gare Saint-Lazare. Potremmo leggere tutte le versioni del breve episodio, ma nessuna di queste ci racconterà quello che ha visto davvero lo scrittore.
Compreso questo distacco fra parola e visione, recupero dalle pagine della memoria la classica esternazione: era meglio il libro rispetto al film! Ma come?Perché mai preferire un groviglio di segni linguistici alla completezza dell’immagine? A questo punto mi trovo davvero confuso: binari paralleli percorrono lo stesso itinerario rimanendo indifferenti l’uno all’altro. L’immagine parrebbe ovvia, nuda di orpelli retorici, eppure nessuno riesce a verbalizzarla; specularmente opposta la parola, che, celata da un retorico velo di Maya, cattura il lettore nel proprio mistero di non finito. Non mi raccapezzo e allora, siccome l’articolo esige una conclusione, uso le parole di Blaise Cendrars: «tutto ciò che ha vissuto vive ancora: cambia, muta, si sposta, si trasforma; la verità contraddice se stessa cento volte al giorno».