Da un lato la batteria riscalda in modo anomalo i tessuti circostanti, dall’altro l’inserimento di un chip con 16.000 connessioni nelle diverse parti cervello è veramente delicato. Per chi volesse approfondire, qui.
Il mercato dei Computer Brain Interface (CBI), ossia di quegli oggetti normalmente attaccati all’esterno della testa, per migliorare udito o vista, o specialmente per modulare gli stimoli nervosi e quindi mitigare sintomi di Parkinson, epilessia, ed altre affezioni del sistema nervoso, ha ormai raggiunto i $6 miliardi e si prevede raggiunga i $15 miliardi entro il 2030. Questi moduli hanno da qualche centinaio ad un migliaio di contatti con il cervello, e sono sviluppati da aziende biomedicali che mediamente hanno molta più esperienza di Neuralink, nell’affrontare tutti i trial clinici. In pratica sono molto più semplici di quanto sta provando a fare Elon Musk, che forse non si preoccupa della grande complessità del nostro cervello.
I BCI si dividono in non invasivi ed impianti. Tra i primi troviamo cuffie, visori, caschi che modulano gli stimoli visivi e sonori, vuoi per cose semplici come i videogiochi, vuoi per applicazioni cliniche come la cura di alcune forme depressive ed anche in alcuni casi di epilessia. Tra gli impianti si distingue tra quelli che non entrano in contatto con il cervello, ma solo con alcune terminazioni nervose (ottico, uditivo): i primi sono i più complessi ma consentono di esplorare un’ampia fascia di applicazioni, i secondi sono più semplici e mirati a patologie specifiche, come può essere il recupero di udito e vista in determinati casi.
Un caso stupendo è BrainGate, ricerca della Brown University che ha accumulato 17 anni di dati sperimentali sulla sicurezza di questi strumenti e ne ha pubblicato stralci importanti qui. In questo caso l’obiettivo è aiutare i casi di paralisi dovuta a traumi della spina dorsale, ictus, o malattia degenerativa dei neuroni di quella fascia. Il BCI di BrainGate viene impiantato sulla superficie della corteccia motoria: è più piccolo di una lente a contatto, ed ha il compito di intercettare i segnali che il cervello manderebbe alla spina dorsale per muovere le gambe, se solo il fascio neuronale fosse integro. A questo punto manda i segnali ad un computer esterno, che a sua volta comanda vuoi arti robotici, vuoi attuatori sugli arti paralizzati.
Per rendere l’idea della difficoltà di questo progetto, qui potete vedere come già nel 2012 pazienti paralizzati riuscissero a muovere dei robot con il loro pensiero: undici anni dopo e siamo ancora qui ad affinare questa tecnologia. Chi vi scrive ha speso anni ad aiutare ragazzi paralizzati da traumi: non vedo l’ora che questa tecnologia diventi più semplice da adottare sulle specifiche esigenze del paziente. So che filosofi e pensatori dibattono molto sull’etica del cyborg, ma dal punto di vista dei pazienti, e di chi si prende cura di loro, è un no-brainer, una scelta scontata.