ILTeatro


Il “paradiso terrestre” di Stanislavkij

“Là si dice che noi attori siamo persone fortunate; perché nell’intero mondo smisurato il destino ci ha concesso alcune centinaia di metri cubi: il nostro teatro, in cui possiamo crearci la nostra vita artistica, speciale, magnifica, che trascorre per la maggior parte in un’atmosfera creativa, nei sogni e nella loro realizzazione scenica, nel lavoro artistico collettivo, in comunione costante con il genio di Shakespeare, Puskin, Gogol’, Molière e altri. Non basta questo a farne un meraviglioso angolo di mondo?” (“Etica”, I)

Le parole sopra riportate sono tra le prime considerazioni presentate in “Etica”, opera incompiuta del noto regista, attore e pedagogo russo Konstantin S. Stanislavskij (1863-1938), padre teorizzatore di quelle pratiche recitative di impronta naturalistica che tutt’oggi, nonostante la fiorente sperimentazione teatrale novecentesca e contemporanea, sono parametri di definizione e riconoscibilità del comune “buon attore”. Una puntuale e approfondita analisi del cosiddetto “metodo” di Stanislavskij, per quanto interessante e utile, poco si addice alle circostanze di questo articolo. Basti sapere, dunque, in modo essenziale, che quello di Stanislavskij è ricordato come il teatro della “reviviscenza”, dell’interprete che non imita né copia superficialmente il personaggio, bensì, attraverso il proprio personale bagaglio emotivo, diviene, è il personaggio. Il teatro di Stanislavskij è, tra l’altro, il teatro del “magico se”, ovvero di quella formula ipotetica al quale è riconosciuto il potere di fungere da ponte tra la realtà e l’immaginazione, tra la vita psichica dell’attore e quella del soggetto al quale egli presta corpo, anima e voce.

La definizione di teatro sopra riportata permette di formulare significative e interessanti riflessioni. Parlare di un “angolo di mondo”, prima di tutto, sollecita la presa d’atto del carattere isolato dell’ambiente teatrale, il quale, rispetto alla realtà quotidiana, si presenta come un ritaglio, uno spazio marginale, quasi estraneo. A ben vedere, una considerazione così estrema della problematica interazione tra teatro e “mondo” trova riscontro pratico nella celebre esperienza, firmata Stanislavskij, degli “Studi”, centri di ricerca e sperimentazione teatrale che affiancano e negano, nella loro indipendenza organizzativa e nell’assenza di una finalità a essi estrinseca, la ritmica e serrata produzione dell’industria dello spettacolo. Riconosciuti nella “Conversazione sesta” (K. S. Stanislavskij, “Conversazioni con gli artisti del Bol’soj”) come delle vere e proprie famiglie, gli Studi sono microcosmi aggregativi, oltre-mondi all’interno dei quali è concessa all’attore la momentanea presa di distanza fisica e mentale dal quotidiano, nonché il privilegio di una disciplinata libertà creativa. Protetto dalle pareti dello Studio, l’attore immagina, inventa, si costruisce una nuova vita, una vita artistica. L’attore si dedica a ciò che ama. Recita per il piacere di recitare.

Ma chi abita quell’angolo di mondo che nell’Etica di Stanislavskij è noto anche, e suggestivamente, come “paradiso terrestre” (“Etica”, I)?

Nell’ambiente proprio della vita teatrale si muove il dilettante, lontano dalle corruzioni del teatro professionale e, proprio per questo motivo, scelto dal regista russo come soggetto e destinatario della ricerca. C’è probabilmente un’eco, nella predilezione per il dilettantismo, delle sperimentazioni di attorialità amatoriale e domestica che caratterizzano l’infanzia del pedagogo. L’attore artisticamente e tecnicamente immaturo conserva, infatti, la purezza e la duttilità del bambino, il cui gioco del “fare finta di” vanta spontaneità e preziosa naturalezza. Nel proprio spazio ritagliato dal quotidiano, dunque, Stanislavskij torna a cercare e a coltivare la dimensione ludica di un prendere i panni altrui, la creatività ricca e disinibita del bambino, la serietà di un approccio totalizzante all’arte del recitare.

Dietro alla definizione di “paradiso terrestre”, inoltre, è impossibile non cogliere anche una profonda sfumatura etico-esistenziale. La polarità tra teatro e “mondo” si costruisce su un’alterità del modo di vivere. L’attore bambino è, allora, in virtù della propria disposizione recitativa autogratificante, simbolo di un approccio positivo alla comunità teatrale e ai suoi valori. Per l’attore bambino non esiste competizione, non esistono invidie, l’attore bambino sa gioire anche per un ruolo esiguo, conosce il rispetto e la disciplina, sa, soprattutto, attraverso l’ingenuità del proprio occhio, filtrare la vita esterna, depurarla dagli spigoli, dai crucci e da quanto può nuocere all’integrità del paradiso.

“Proteggete il vostro teatro da tutto ciò che è male” (“Etica”, I)

La parete dello spazio teatrale, tuttavia, seppur necessariamente divisoria rispetto alla realtà altra, mostra, paradossalmente, una permeabilità che fa dei precetti comportamentali impartiti nello Studio la misura anche dell’esistenza quotidiana. Attorno al paradiso e alle sue esigenze ruota e si regola, infatti, il vivere complessivo dell’attore bambino, in un processo di trasformazione che non coinvolge unicamente l’interprete, ma investe anche, e soprattutto, l’uomo.

“Tra la casa, l’andare allo Studio e il lavoro nello Studio, non ci sarà interruzione mentale.” (“Conversazione ventiduesima”)

Tra vita e arte, dunque, sembra non esistere una vera cesura. Esse, in precario equilibrio, dialogano in uno spazio ambiguo, sfumato, che trova centro proprio nel prezioso, paradisiaco, angolo di mondo. Il teatro.


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