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The show must go on

La sensazione che provi guardando decine di migliaia di palestinesi che camminano verso le loro case distrutte, migliaia di israeliani che festeggiano in attesa degli ostaggi superstiti, insospettabili capi delle élites come Obama sperticarsi in lodi verso Trump, è che questo show teatrale non sia finito, debba continuare a lungo.

La famosa canzone dei Queen ci racconta, con allusioni e metafore, che la tragedia è lì ad attenderci: c’è determinazione, voglia di vivere, ma le forze stanno venendo meno. In questi giorni i social media ripresentano i video del 7 ottobre, in un’operazione di propaganda palese visto che Israele li aveva fatti censurare il giorno dopo l’attacco. I pro-Pal rispondono in rima, con altrettante immagini dei bimbi distrutti a Gaza, come se due orrori potessero fare pari e patta. Entrambe fanno l’errore di appellarsi alla storia, in un minestrone di date e secoli ormai passati ed inutili: vedersi espropriati di casa e terreno perché 50, 500 o 5000 anni fa li c’era il nonno dell’avversario è ingiustizia in purezza.

Hamas ed IDF sono stremati: il terrorista è riuscito a farsi passar per vittima ed ottenere l’avvallo internazionale per il riconoscimento dello stato palestinese, il soldato è riuscito a radere al suolo un territorio che forse resterà povero e rovinato per anni. Trump ha capito, vuoi per davvero, vuoi per tattica negoziale, che mandar via i palestinesi per riempire Gaza di spiagge, palme e ristoranti, non è fattibile, non adesso. Anche a forza, i due popoli devono convivere sotto lo stesso tetto, ancora per un po’.

A differenza degli accordi di Oslo di trent’anni fa, questo ha il pragmatismo che illude di successo: i terroristi liberano gli ostaggi, abbassano le armi e lasciano spazio all’autodeterminazione dei palestinesi, i soldati fan dietro-front ed aprono le porte agli aiuti per la ricostruzione. Giro di valzer per il Presidente con tutti i padroni del medio-oriente, ripresa degli accordi di Abramo, tarallucci e gazzosa per tutti (il vino è vietato da quelle parti, non vuoi mai che dia alla testa).

Come a teatro, possiamo illuderci che due popoli che si odiano nell’epigenetico profondo del DNA, che fino ad un minuto prima si sono macchiati dei peggiori orrori di una guerra civile, da domani trovino una quadra per convivere in modo rispettoso. Come in America, dove dopo 160 anni dalla guerra civile viviamo ancora forti fenomeni di intolleranza, abbattiamo statue e cambiamo nomi per oscurare il nemico di tante generazioni fa. O come in Irlanda del Nord, dove gli accordi di Good Friday del ’98 reggono a malapena, cenere sopra una brace sempre vicina alla violenza.

Nel 2015 il 60% degli israeliani era a favore del riconoscimento della Palestina, oggi siamo sotto il 20%. Il 50% dei palestinesi giustifica l’attacco del 7 ottobre e la resistenza armata, l’87% è convinto che Hamas non abbia commesso atrocità. Come possiamo sperare che questa tregua diventi pace duratura?

Se per magia America, Paesi arabi confinanti ed altri volenterosi, riempissero di investimenti questo territorio in modo da ricostruirlo rapidamente, arricchendo tutti i cittadini, portandoli dalle tende a ville con jacuzzi, forse questo armistizio potrebbe reggere. La forte crescita economica, come abbiamo visto dopo la nostra guerra civile e la “tigre celtica” in Irlanda, dà una buona misura di cosa perdi se riprendi a sparare al nemico. Se non sei tontolone preferisci vivere con un tetto sulla testa ed un piatto in tavola, invece che sotto le bombe. Questa è l’unica flebile speranza per tenere a bada la legge della giungla, che altrimenti regolerà la fine di questo conflitto con la ripresa delle violenze.

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