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Scegliere l’università in America

Sabato scorso ho accompagnato la figlia più giovane a vedere la Syracuse University, che a lei interessa per la facoltà di architettura. Inizia così l’anno più stressante per gli studenti americani, quello a cavallo tra penultimo ed ultimo anno delle superiori. 

È in questo lasso di tempo che bisogna prendere i voti migliori, fare al meglio nei test standardizzati, e possibilmente riuscire ad entrare in una di quelle preferite.

Il 70% dei liceali americani si iscrive all’università, ma solo il 54% arriva alla laurea, e questo è parzialmente dovuto a selettività e costi da sostenere. Per i 3.7 milioni che finiscono le superiori ci sono 1.5 milioni di posti nei corsi biennali (corsi vocazionali) ed 1.9 nei corsi tradizionali di quattro anni. In pratica, specialmente per università prestigiose e facoltà molto richieste, l’accettazione varia tra 1 e 20%. E qui si apre un mondo, perché l’educazione in America è governata dalle regole di mercato, mira al profitto ed alla raccolta di fondi a livello di multinazionale del business.

Andare a questa Syracuse, come altre università alte in graduatoria, costerebbe circa $60.000 di costi d’insegnamento, ed altri $18.000 di vitto ed alloggio, per un totale di $78.000 all’anno. Ne deriva che lo studente non vuole solo essere ammesso, ma ricevere anche una sostanziale borsa di studio, che varia da $5.000 alla copertura totale del costo d’insegnamento. Vitto ed alloggio invece, li paghi sempre.

Le borse di studio sono finanziate dalle donazioni dei ricchi, delle aziende e dalle rendite della stessa università. Tanto MIT ed Harvard hanno $250.000 per ogni studente, e per ogni anno che frequenta da loro: pensate che li ammettano gratuitamente? Manco per sogno, anche questi studenti pagano, e profumatamente. Oggi in America 44 milioni di persone hanno ancora circa $40.000 di debito dal proprio percorso universitario: ho amici medici che han finito di pagare il proprio debito sui 45 anni.

Ora mettetevi nei panni di un adolescente che affronta università che, per scremare, chiedono ai candidati di avere già passato 4-5 esami universitari, partecipato ad almeno uno sport a livello agonistico, aver lavorato e fatto volontariato nella comunità. Se poi sei bianco, e devi anche ottenere una borsa di studio che non cavi il sangue a te e tuoi genitori per i prossimi vent’anni, devi eccellere rispetto alla concorrenza. Il tutto, sapendo che i figli dei ricchi, tanto americani quanto cinesi o di altre nazionalità (pecunia non olet, da dovunque arrivi), grazie alle donazioni dei genitori hanno l’ingresso preferenziale.

Ora mettetevi nei miei panni, a spasso per questo campus con il prato rasato che manco a Buckingham Palace, apprendere che strade e marciapiedi sono riscaldati, in modo da non scivolare sulla neve invernale. Oppure notare come a fronte di ventimila studenti, lo stadio abbia una capienza per 50.000 (quello della Juve a Torino ne ha 41.507) e venga a cantare pure Elton John. E cosa dire del fatto che per la salute mentale degli studenti si può scegliere tra terapisti professionisti (per fortuna), accarezzare cani, gatti, cavalli e lama, fare yoga, meditazione e luci blu per rilassarsi? E dove lo vogliamo mettere il corso di laurea in e-sport (videogiochi)?

Chi ha vissuto il liceo e l’università come luoghi e tempi per apprendere, imparare a soffrire e gestire carichi di lavoro importanti e priorità diverse, ed in ultima istanza costruirsi uno sviluppo professionale o accademico, rimane un tantino spiazzato da questo approccio consumistico. Hai la netta impressione che laurearti, e diventare architetto, sia incidentale rispetto a quest’esperienza inclusiva, piena di diversity, vegana, gluten-free, halal e kosher, che ti porta anche a livelli eccelsi di videogiochi e ti mette in groppa ad un lama. Ti viene quasi il dubbio che mercanteggiare l’educazione sia una cagata pazzesca, ti torna in mente il compianto David Graeber, che spiegava bene come il debito sia l’equivalente virtuale delle catene per gli schiavi.

Ed a quel punto ti giri verso la cucciola, fai in modo che legga alcuni libri, parli con lei per verificare che veda e capisca alcuni concetti, e riponi tutto l’ottimismo possibile nella nuova generazione, che come tutte le precedenti, da Neanderthal ad oggi, ha sempre fatto meglio della precedente. E sarà così anche questa volta.


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In questo numero hanno scritto:

Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite