Curiosamente, i sinistri, i destri, i centrini del mondo della politica e degli intellò, si sono buttati su uno spot della tv commerciale. Questo della “pèsca” (trattandosi del frutto, occhio all’accento) non potevo dire di non averlo visto; un prodotto ben fatto, coerente con la politica di marketing di Esselunga e del suo fondatore, tutta basata sulla fidelizzazione del Cliente. Non ho capito perché buttarla in politica, visto che il claim era dichiarato e noto: “Non c’è una spesa che non sia importante.” Insomma, un Bernardo Caprotti in purezza.
Ho avuto il privilegio di conoscere e di veder operare i cinque più grandi CEO (negli ultimi tre casi, anche imprenditori-fondatori) del Novecento italiano: Vittorio Valletta, Enrico Mattei, Michele Ferrero, Bernardo Caprotti, Leonardo Del Vecchio. Per loro la parola Cliente portava sempre la “C” maiuscola.
Chi opera poi nel campo della grande distribuzione sa che deve “raccontarsi” attraverso storie che ruotino intorno alla spesa, che fotografino la realtà della quotidianità. Null’altro. La famiglia, i single, i presunti diversi, sono anzitutto dei Clienti che devono prima entrare, poi scegliere, infine passare alla Cassa e, soprattutto, tornare. Da lasciare in pace. Guai caricarli di significati relativi all’imbarazzante politica politicante dei talk e dei giornali, che su quello campano.
Nel marketing è vietato proporre stereotipi politicizzati che ridurrebbero il parco degli acquirenti, mentre è invece opportuno identificare comportamenti d’acquisto che possano avere significati diversi. Il marketing ha delle regole ben precise, dalle quali non si può derogare, Esselunga ha semplicemente lavorato su una storia ben congegnata, usando un linguaggio nuovo che parla al cuore delle persone comuni, che, nel loro caso, sono molto fidelizzate. Avere un parco clienti fidelizzati di oltre 5 milioni rappresenta un asset formidabile, da difendere ad ogni costo.
A titolo personale, confesso di essere ancora legato al principe degli spot, quello Ferrero Rocher anni Ottanta. Insuperabile. Anche in quello non c’era nulla di politico, ma molto di costume. L’osservazione però era leggera, rilassata, ironica. La “padrona” seduta nel sedile posteriore della Rolls Royce (l’automobile per definizione, per guidarla occorreva una patente specifica rilasciata dalla stessa Rolls Royce, con i pezzi di ricambio che arrivavano via aerea) era semplicemente chiamata “la signora in giallo” (nella vita vera, era la modella americana Lee Skelton, diventata poi Principessa Borghese). Invece, l’autista si chiamava Ambrogio (nella vita vera, era l’eccellente attore inglese Paul Williamson), nome tipicamente milanese, perché gli Anni Ottanta sono stati il decennio della “Milano da Bere”, le cui nascoste sconcezze sarebbero state scoperte, nei Novanta, dalla locale Procura. Dalla “Milano da Bere” alla “Milano di Mani Pulite”, senza soluzione di continuità.
La locuzione chiave dello spot, e del decennio, era: “Ambrogio ho un languorino …”. In termini sociologici, si sottolineava che la fame era stata sconfitta dal progresso, quindi sostituita dal “languorino”, al quale avrebbe provveduto il cioccolatino Ferrero Rocher. Questo il messaggio sublimale: un prodotto di alta gioielleria venduto in un supermercato, abbattendo così le barriere sociali, ad altissima profittabilità prodotto/mercato. Una genialata sublime di marketing in purezza, da parte di quel genio che è stato Michele Ferrero. L’unico CEO che dominasse, in contemporanea e a livelli altissimi, sia l’innovazione di prodotto/mercato sia il marketing sia la comunicazione.
Noi che viviamo nella comunicazione dobbiamo sapere che chi opera ad alto livello nel marketing, per definizione, non è né sinistro, né destro, né centrino. Ha un unico Re: il “Fatturato”, e una sola Regina: la “Quota di Mercato”. Dovrebbe valere anche per noi Editori, ma abbiamo disimparato a fare il mestiere, e vorremmo fatturare chiacchiere, spesso oscene, che però sempre meno persone reali pare vogliano comprare. Sarà mica che i nostri prodotti siano irrimediabilmente scaduti? Prosit!