La burocrazia è altresì faticosa (eufemismo) se, come me, si ha in mano un evento pubblico da organizzare con la partecipazione di ospiti, come il Giorno della Memoria per l'Accademia di Brera di Milano.
Per quanto il sostegno sia poderoso, mi ritrovo in questi giorni a passare una marea di tempo a seguire le questioni burocratiche perché basta che una virgola sia fuori posto e tutto è da rifare. Ogni volta avverto un senso di impotenza, misto a rabbia e frustrazione. Se domando la modulistica, mi si dice che dovrei già averla, se non la domando, portandomi avanti, mi rispondono che i modelli sono cambiati.
È come se ci fosse un genio capriccioso, non per forza cattivo, che si muove solo nel suo schema, come un robot, evitando di interagire con l’altro. Sono certa che l’avvento del digitale abbia peggiorato il sistema scaricando addosso alle persone comuni pratiche davvero incomprensibili: prima si andava all’ufficio preposto di persona e si veniva aiutati dal personale amministrativo nella compilazione dei documenti. Oggi invece, si deve fare tutto da soli, sbagliando, perché il linguaggio è ermetico, e l’errore viene fatto notare con un certo sottile sadismo.
Io che ho l’ideazione e la costruzione di tutto l’evento, che già di per sé occupa settimane di definizione, sono costretta, perché tutto funzioni, a passare dai vari uffici per l’approvazione: un iter, come è stato definito più volte, kafkiano. E la cultura che fine fa?
“Le burocrazie sono forme utopiche di organizzazione: fanno richieste che secondo loro sono ragionevoli, fissando standard impossibili, e poi danno la colpa ai singoli che non riescono a rispettarli. A livello personale, la cosa più spiacevole è stata rendermi conto che a compilare quei moduli ero diventato stupido anch’io”. (David Graeber)