Vita d'artista


Ingegnere del tempo perduto

Qualche giorno fa leggevo un articolo sulla recente acquisizione da parte degli Uffizi di tre autoritratti di artisti contemporanei: quello di Giuseppe Penone, esponente dell’Arte Povera, dal titolo “Rovesciare i propri occhi”, un’opera di Liu Bolin, artista cinese maestro del camouflage, e “Dismorfofobia” della fotografa Ilaria Sagaria. La cosa che mi ha colpito è stata il sottotitolo dell'articolo: 

“Le donazioni andranno ad arricchire la vastissima raccolta inaugurata da Leopoldo de’ Medici”. Insomma, il tempo di ieri e quello di oggi, come per avvalorare la qualità del prodotto acquisito. Il museo degli Uffizi, venerato in tutto il mondo per la sua collezione unica, invece di mantenere la sua vocazione e puntare sul suo immenso valore e contenuto, si butta per così dire nella mischia contemporanea. Mi sembra purtroppo il trend degli ultimi anni, la nuova forma di comunicazione per “svecchiare” un museo: una specie di woke colture in salsa artistica. Ma gli artisti cosa ne pensano?

La mia mente è andata all’ottima intervista di Pierre Cabanne a Marcel Duchamp, raccolta nel libro Ingegnere del tempo perduto (definizione che Duchamp da di sé quando smette di dipingere e inizia a costruire meccanismi), da me letta e riletta negli anni e sempre apprezzata per il pensiero libero e anticonvenzionale.  Duchamp critica l’idea stessa di museo. Manifesta infatti un dubbio sui giudizi di valore espressi da parte di coloro che hanno deciso di esporvi alcune opere invece che altre, altrettanto e forse più degne. A suo parere in ogni epoca esiste una sorta di infatuazione per certe cose e non altre, una moda fondata su un gusto momentaneo, che poi scompare, e talvolta, malgrado tutto, quelle opere restano. Una società può esaltare determinate opere e costruire con esse un Louvre (o gli Uffizi) che può durare anche secoli, ma non è detto che quelle opere esprimano la verità in arte, o un giudizio reale, assoluto, ciò è impossibile da definire, anzi è un’assurdità.

Ancora mi insegnano le sue parole, anche se nella vita le declino in una modalità diversa di lavoro: “Preferisco vivere, respirare, piuttosto che lavorare. Non ritengo che il lavoro da me realizzato possa avere, in futuro, una qualunque importanza dal punto di vista sociale. Dunque, se vuole, la mia arte sarebbe quella di vivere ogni istante, ogni respiro; è un'opera che non si può ascrivere a nessun ambito specifico, non è né visiva né cerebrale. E’ una specie di euforia costante.”

Nessuno la sente più quell’euforia costante, oggi.

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