BASTA LA POLITICA FINTA, SOLO E SEMPRE GIORGIONE
Lo confesso, da due giorni ho gettato la spugna: rifiuto l’informazione giornalistica e radio televisiva. Le trasmissioni del primo mattino? Non le seguo perché mi sveglio alle 4, scrivo, faccio la passeggiata, compro il cibo per mezzogiorno dal pescatore e dalla contadina, poi cucino (da buon apòta non mi fido di nessuno). Quelle del pomeriggio? Inguardabili. Restano quelle della prima serata.
Da quando siamo diventati ultraottantenni mia moglie ed io amiamo cenare prima delle 19 (e pure prima di mezzogiorno), come avviene negli ospedali (ci stiamo attrezzando alla bisogna, almeno psicologicamente). Questa modalità mi permette di presentarmi pimpante ai tre telegiornali delle 20 (RAI 1, Canale 5, La 7). Uso la tecnica del saltabeccare dall’uno all’altro per capire come hanno impaginato il loro manufatto, non certo per conoscere i loro commenti, più o meno servili, che mi sono noti da sempre.
Da due giorni sono traslocato su SKY, non certo sul canale 100 (una CNN de noaltri, francamente imbarazzante), ma sul 412: Giorgione, Orto e Cucina. Immenso. Lo confesso vorrei essere come lui, solo con un filo di pancia in meno. Si capisce che lui è un uomo vero, di valori veri, quindi ama il cibo come tale (aborre, come me, l’impiattamento fighetto). Il cibo globalizzato a basso costo che rende, a gioco lungo, zombie chi lo assume, non ha spazio. Cucina e mangia come solo un uomo profondamente religioso sa fare. Lui protegge i suoi arrosti di carne dalla cottura violenta nel suo vecchio putagè a legna color perla. Come? Fasciandoli con spesse fette di guanciale: è costantemente appeso sotto il camino, in attesa di intervenire, come fosse il Lord protettore della casa.
Mentre lo osservo “fare la solita smucinata propiziatoria”, aggiungere “olio come se piovesse”, mettere una “dose generosa burro” (di malga, non l’orrendo chiarificato), un “nonnulla di sale rigorosamente grosso”, mi vengono stupende metafore sulla politica italiana. Dalle 20 alle 20,30 con lui faccio un ripasso della vita vera, mentre i conduttori televisivi, pieni di inutile boria, mi spacciano come vere le loro oscene “fake truth”. Sono felice che i giovani si rifiutino di ascoltare costoro.
Lo confesso, mi sfugge dare tutta questa importanza alle elezioni regionali in Emilia Romagna. Noi addetti ai lavori sappiamo che è tutto finto, perché comunque vada non succede nulla, è già tutto stabilito. Gli unici poteri che ha un Presidente di Regione sono relativi alla Sanità, quindi un banale problema di efficienza che però dipende dai trasferimenti centrali. Stefano Bonaccini è il classico funzionario ex PCI, non ha mai fatto null’altro che politica, ha un diploma di maturità scientifica preso negli anni Ottanta. Equivalente il curriculum di Lucia Borgonzoni salvo che il diploma è in arti figurative, essendo nipote di un noto pittore e il partito di riferimento è la Lega (già una costola del PCI). Il fatto che siano entrambi diplomati è positivo, Erasmus e laurea con master incorporato servono per creare persone di staff, non certo funzionari addetti all’execution. Bene che siano entrambi funzionari politici, i tecnici lasciamoli negli uffici studi delle Banche.
Considero irrilevante chi vinca, tanto le due coalizioni che li supportano, per motivi diversi, non contano nulla in termini di potere esecutivo. Tutto è stato deciso nell’agosto scorso: questo Parlamento ha un solo compito, fare melina per due anni e poi nominare il nuovo Presidente della Repubblica. Per la gestione corrente del Paese ci si affida al pilota automatico dell’Europa, per la politica estera al duo di Aquisgrana, i fucilieri dello spread e del debito finché c’è Conte restano acquartierati nelle loro caserme-università, la troika è in ferie.
Giuseppe Conte deve semplicemente fingere di fare il Premier (ci riesce alla grande), in realtà guadagnare tempo per due anni. A quel punto verrà nominato il nuovo Presidente della Repubblica, già scelto e già con il gradimento del duo di Aquisgrana, della Commissione, del FMI, della BCE. Non deve neppure rifarsi il guardaroba, perché quello che ha è già presidenziale. Un colpo di ferro e oplà: pronto per il Colle.
L’Establishment festeggerà, io no. Avrei preferito non uno chef ma un cuoco vero, che usa prodotti italiani, Giorgione Barchiesi
IL PROTOCOLLO DEL MALIGNO
Quando sui media leggi le interviste di membri dell’Establishment, le storytelling che ti offrono, subito non puoi che dichiararti d’accordo su tutto e con tutti. Riflettendo, e seguendo la stessa logica, potresti però, altrettanto tranquillamente, dichiararti in disaccordo su tutto e con tutti. Com’è possibile? Perché non siamo nella vita reale ma nel mondo della comunicazione. Tutto è comunicazione.
Esiste ancora la vita reale? Per alcuni di noi, meno ingenui della massa, penso di no. Passiamo da una bolla nera a una colorata e viceversa: possibile coglierle. Alcuni hanno cominciato a capire che tutto è comunicazione, quindi tutto è teatro. Di conseguenza noi siamo attori, però recitiamo sempre e solo ruoli subordinati. Due esempi. Sul mio carcinoma ci ho scritto un libro raccontando come mi sia trasformato in un attore teatrale per fingere che lui (il carcinoma) sia un banale soprammobile di cui io sono solo il magazziniere. E da due anni vivo (bene) immerso in questa fake truth. Oppure, prendiamo uno dei processi del Protocollo, quello mediatico: noi “giornalisti” fingiamo di raccontare dei fatti. In realtà seguiamo un copione che, sulla base di un canovaccio, elaborato da un pugno di “impresari” che l’hanno assegnato a degli “autori”, da loro ultra selezionati, per lo svolgimento. Questi la “trasformano” in una traccia per i “politici” chiamati a recitarla in pubblico. A questo punto noi giornalisti la sintetizziamo sui giornali. La fake truth è confezionata: sembra vera ma è falsa.
Eppure, come vecchio apòta, militante fin dalla più tenera età, dovrebbe essere per me più facile che ad altri individuare quantomeno la “verità prevalente” (mio copyright). E invece no. Ogni volta, faccio molta fatica a capire se una notizia è vera, ovvero è una fake news popolare o istituzionale, peggio una fake truth (cioè, al contempo vera e falsa). Chi fa questo mestiere dovrebbe avere come stella polare il versetto Matteo 5,17-37: “Sì, sì, no, no. Il dì più viene dal Maligno”. Impossibile attenervisi, almeno nella vira reale. Saresti subito punito, e proprio dal Maligno, sotto le vesti del tuo padre-padrone.
Come divertissement, applichiamo questo Protocollo alla crisi libica e chiediamoci se non sia una fake truth. Infatti com’è possibile che i due avversari facciano negoziare la pace a terzi e loro si rifiutino persino di incontrarsi? Oppure, applichiamolo alla campagna elettorale in Emilia-Romagna. Come ovvio, nessuno sa chi vincerà. Tutti i benpensanti paventano che vinca la Lega e si vada alle elezioni. Se anche fosse (io non ci credo, ma sbaglio tutti i pronostici), tranquilli, non succederà nulla. Scatterà il Protocollo. Così il Governo Conte Bis, senza fare nulla, perché questa è la sua mission, durerà, cincischiando, fino alla nomina del nuovo Presidente della Repubblica.
Su questo aspetto invece noi sappiamo già cosa succederà. Il Protocollo è chiaro. Il “nuovo” Presidente dovrà essere esattamente come il “vecchio” e verrà pescato, trattandosi di pièce teatrale, in una rosa di “attori” certificati. E’ un’epoca di mezzo questa, dominata dal Maligno, ci vuole tanta pazienza e le persone perbene devono fare continui passi indietro, perdendo dignità, se vogliono sopravvivere. Prosit!
IL CAMEO
IL MES E I NIPOTINI DI JEAN MONNET
Ogni tanto i lettori di Zafferano.news e delle varie testate che pubblicano i miei scritti mi spingono a focalizzare il Cameo su determinati argomenti di attualità. Di norma io faccio lo gnorri. Curiosamente nel caso del MES la pressione è stata molto più forte del solito, allora tentai di cavarmela con un tweet ironico “Non essendo tecnicamente preparato non ho letto nulla del MES, quindi non so nulla, ergo non mi sono schierato…”. Però non bastò: altre mail con allegate ricche documentazioni specifiche volevano spiegarmi che il MES è di facile comprensione.
Allora altro tweet, sempre ironico “Dopo giorni di letture di giornali, di talk show, ho finalmente capito il MES: a Torino lo chiamiamo pachét. E’ un atto notarile, scritto, approvato, firmato dal Notaio stesso quindi operativo. Per pura cortesia costui permette al Parlamento di leggerlo e parlarne, però è inemendabile”. Pensavo di essermela cavata. Niente, i lettori non si accontentarono. Oltretutto, le recenti sguaiate risse in Parlamento in un certo senso giustificano le loro richieste. A questo punto, scrivo il Cameo, come richiesto, ma non cedo: il mio giudizio sul MES me lo tengo (onestamente penso non sia professionale ma intuitivo).
Il mio maestro Hunter Thompson suggerisce in questi casi di fare un inciso con schizzi del tuo passato: i lettori lo apprezzano. Torniamo allora al dicembre 1947, mio padre ha appena 41 anni ma sta morendo. E’ un mese ormai che quando torno a casa da scuola vuole che gli legga i resoconti che fa La Stampa sulla stesura finale della Carta Costituzionale. Non era d’accordo, lui operaio, sull’art. 1: voleva la “libertà” in luogo del “lavoro”. Un paio di giorni prima a mamma e a me (13 anni) ci parlò per l’ultima volta, ovviamente di politica (la parola fascismo la imparai subito dopo le prime quattro o cinque basiche) dicendo di non fidarci di quelli appena andati al potere. Tra i suoi libri (pieni di note scritte a mano), c’erano tutti quelli di Giuseppe Prezzolini. Diventare apòta fu per me un’ovvietà e tale sono rimasto tutta la vita, non fidandomi di fascisti, di comunisti, di azionisti, anche nei loro diversi travestimenti pseudo liberali o riformisti, secondo me fatti solo per gabbare i cittadini.
Capii cosa intendeva mio papà quando equiparava, in termini di minaccia per la democrazia, il Partito d’Azione al fascismo e al comunismo, solo molti anni dopo, quando si avviò il processo di integrazione europea. Mi colpirono due frasi di uno dei padri fondatori, Jean Monnet. Per la prima volta un pensatore non parlava di teorie e sogni ma di execution, il mio mondo. Queste le frasi che rimarranno scolpite nella mia mente, da associare all’Europa e alla politica in genere:
1 Le nazioni europee dovrebbero essere guidate verso un superstato senza che le loro popolazioni si accorgano di quanto sta accadendo. Tale obiettivo potrà essere raggiunto attraverso passi successivi ognuno dei quali nascosto sotto una veste e finalità meramente economica
2 I popoli accettano i cambiamenti solo in stato di necessità, e riconoscono la necessità solo in presenza di una crisi.
Molti anni dopo, quando il Ceo capitalism cominciò a prendere forma capii l’oscena profondità di quelle due frasi (il fascismo da nero si stingeva nel rosa pallido), coerenti con il curriculum di Monnet. Era un produttore di Cognac, un tecnocrate, francese di nascita e di cultura, anglosassone di mentalità e di frequentazioni. Oggi il suo profilo è riconducibile a quello di un CEO versione deal maker. Credo che dobbiamo riconoscere a Jean Monnet pure la primogenitura filosofica del Ceo capitalism. Infatti, le due frasi suddette sono i plinti sul quale lo stesso si poggia.
Ogni lettore che mi ha scritto ha ora tutti gli elementi per decidere liberamente che fare. Per favore, lasciatemi fuori, quel mondo non mi piace.
COLLOQUIO-INTERVISTA FRA DUE GRANDI VECCHI
Una delle principali caratteristiche di noi grandi vecchi (non c’è nulla di cui vantarsi, con la minuscola, “grandi” lo diventiamo tutti, certo, dopo gli ottant’anni), specie se abbiamo avuto successo nella vita. Però, in molti di noi scatta un meccanismo che ci convince di essere dei “fuori scala” e di aver scoperto, solo perché vecchi, il talismano della verità. Ci convinciamo cioè di essere dei leader e gli altri cittadini dovrebbero prenderci a riferimento. Non è così, ma la vanità è una brutta bestia, e cresce al crescere dell’età.
Mi è molto piaciuta l’intervista-colloquio fra due Grandi Vecchi (questi sì con la maiuscola), Eugenio Scalfari e Papa Bergoglio (a differenza di Repubblica non uso Papa Francesco, da vecchio cattolico, molto legato a Gesù, sono fermo al fatto che Papa Francesco parli solo con Dio e con i fedeli, mentre Papa Bergoglio può parlare con chi vuole, specie con un vecchio amico che lui stima). Nel colloquio Papa Bergoglio fa una splendida sintesi della figura di Francesco d’Assisi e del suo misticismo. Con grande tempismo, Scalfari, da giornalista di razza, si inserisce con un impeccabile “…ma lei di mistico non ha nulla, o mi sbaglio?” “No, non ho nulla , per questo ho preso il nome di Francesco”, dice Papa Bergoglio, per poi spiegare in termini di dottrina questa sua risposta, all’apparenza secca.
Lo confesso, come ex manager, ex CEO di multinazionali, studioso di ristrutturazioni aziendali e di riposizionamenti strategici prodotti/mercati, mi piacerebbe tantissimo fare una domanda a Papa Bergoglio su questi cinque anni di pontificato, ovviamente sul suo lavoro per ridisegnare ruoli e responsabilità del triangolo Papa-Curia-Vescovi. Il management ci insegna che è molto differente fare una ristrutturazione e un riposizionamento nell’ottica di privilegiare lo shareholder ovvero quello molto più complesso di privilegiare gli stakeholder. Così la durata del processo è molto importante. La tempistica, nell’organizzazione dei processi, gioca un ruolo rilevante sul risultato atteso (è evidente che non si può stare in una fase di perenne ristrutturazione).
Purtroppo la mia domanda non la potrò mai fare. Sono sì un grande vecchio, ma non un Grande Vecchio. Pazienza.