Supplemento


Spremuta di Camei

Era il 4 luglio 2017, per un giorno sono stato “Ceo ombra” di Fca, all’insaputa di Sergio Marchionne.

Questo Cameo è riproposto oggi ai lettori, ma è stato scritto e pubblicato il 4 luglio 2017. Se l’accordo FCA-Peugeot, come dice il WSJ, si dovesse fare sarebbe uno scoop a scoppio ritardato, e mancherebbe purtroppo il personaggio principale di questa avventura, che ci ha lasciato prematuramente, Sergio Marchionne, alla cui memoria il Cameo è dedicato. Ecco il testo di allora:

Aperte virgolette. “Non è uno scoop, non è una fake news, è solo il divertissement di un vecchio signore, innamorato del business delle “Ruote”, vedovo della vecchia Fiat, che per un giorno finge di arraffare il potere esecutivo, si atteggia a “Ceo ombra” di Fca, si trasferisce (in spirito) nel mega ufficio presidenziale al 15°piano del Palazzo Chrysler di Auburn Hills (Sergio Marchionne aveva scelto, per trasferire al management americano un’immagine di sé operativa e umile, quello al 4° piano), fa un’analisi approfondita degli scenari presenti e futuri dell’industria dell’auto, definisce un nuovo posizionamento di Fca, decide la relativa strategia, sottoponendola all’unico azionista che riconosce, lui stesso, investitore mini sì, ma occhiuto, di Fca, fin dal 2009.

Su Fiat, su Fiat-Chrysler, su Fca, da oltre 10 anni pubblico articoli, Camei, libri (Parola di Marchionne, Brioschi editore, Fiat, una storia d’amore (finita), edizione italiana e inglese, Grantorino Libri), spesso scrivo pure di Sergio Marchionne. Non ho mai nascosto il mio giudizio su di lui (pur non conoscendolo di persona): è il più capace e brillante deal maker del mondo dell’auto, mentre come manager sono fermo a una risposta data a un intervistatore che voleva definirmi il “Marchionne ante litteram degli anni ‘90”. Lo pregai: “Non lo faccia, non è vero, apparteniamo a due giardini zoologici diversi”. I lettori del Cameo sanno pure che quando scrivo di Fca sono in palese conflitto d’interessi, essendo al contempo investitore Fca e analista che pubblica su Blog e giornali.

Tutta una serie di segnali deboli mi dicono che Fca abbia imboccato, in termini strategici, il suo ultimo miglio. Come analista, e come investitore interessato, ho deciso di immaginarmi, per un giorno intero, sulla tolda di comando di Fca, nelle vesti che furono del mitico Lee Iacocca, oggi di Sergio Marchionne che mitico lo diventerà presto. Indosso, in modo goffo, il maglioncino nero d’ordinanza. (Non se ne abbia caro dottor Marchionne, è puro divertissement, stia tranquillo, non voglio certo prenderle il posto). Voglio solo rispondere alle battute che i potenti fanno a noi analisti quando li critichiamo: “Facile chiacchierare”, dicono, “ma lei che farebbe se fosse al mio posto, se avesse le mie responsabilità? Sì, proprio lei Ruggeri, che parla sempre di execution”. Punto sul vivo, accetto la sfida: ecco cosa farò come “Ceo ombra” di Fca, per un giorno (solo) nella stanza dei bottoni.

Primo: cedere Fca. Se si vuole essere politicamente corretti si dica pure “consolidarla”, ma il significato è quello, dobbiamo uscire dal business dell’auto, perché ci mancano le stimmate del leader. Lo scorporo, prima dei “diesel” (camion, trattori, movimento terra), poi di Ferrari, ha dato molte soddisfazioni finanziarie a noi investitori, Marchionne il suo lavoro di deal maker l’ha fatto, e giustamente deve passare all’incasso delle sue stock option e relativi bonus (questa è una variabile strategica non banale da tenere presente, nella gestione complessiva dell’operazione consolidamento, del quale spesso gli analisti non parlano, e pure io, almeno in questa fase, sorvolerò). Scorporati i “gioielli”, cosa resta? Il corpaccione di Fca, un follower, che però ha ancora in pancia alcuni asset interessanti, da “apportare in toto” o a mò di “spezzatino”, comunque da valorizzare nell’operazione che segue.

Certo, stante la sua attuale stazza, Fca non può essere un credibile “cacciatore” (leader) nel grande gioco delle “alleanze-consolidamento”, peggio, stante la sua intrinseca debolezza di posizionamento strategico, deve sbrigarsi a diventare “preda” (follower). Il tempo le gioca contro. Perché questa algida conclusione? Perché la dimensione standard per rimanere nel mercato mondiale dell’auto, in questi ultimi anni è mutata, profondamente. Ricordo quando, nel 2007-8, Marchionne parlava, giustamente, di 5-6 milioni di pezzi (Fiat ne faceva 2,7), cinque-sei anni dopo di 7-8 milioni (Fiat-Chrysler era a 4,4).

Ora i presupposti di sopravvivenza sono altri: a) Essere presenti, sia nelle tre aree chiave del mondo autoveicolistico (Americhe, grande Europa, Asia), sia essere leader in tutti i segmenti prodotto/mercato; b) Avere una “stazza” di produzione/vendita di almeno 10 milioni di pezzi (come ovvio sono esclusi gli “specialisti”, Bmw, Mercedes). Perché la “stazza” ha assunto questa importanza? Non solo per l’abbattimento dei costi, ma perché occorrono enormi investimenti, da spalmare su volumi congrui, nel “full electric”, nelle “auto a guida autonoma”, etc.

Circa gli attori in gioco lo scenario è drammatico se riferito alla sola Fca. Oggi il numero dei pezzi/anno fa aggio su tutto, e determina la classifica in milioni di auto: 1. Volkswagen 10,13; 2. Toyota 10,01; 3. Renault-Nissan (più AutoVaz e Mitsubishi) 9,96; 4. General Motors (depurata del milione di pezzi ex Opel): circa 9,0. Nella mia analisi trascuro i costruttori cinesi e coreani, assumo invece che ci sia ancora posto per un quinto attore da 10 milioni di pezzi, che può nascere dal consolidamento di due leader, Ford e Peugeot, ovvero di uno di loro con l’unico “follower” rimasto, Fca. E’ arrivata l’ora di dircelo: Fiat Auto e Chrysler erano “follower” prima di Marchionne e tali sono rimasti anche dopo la sua cura. Una cosa però è certa: quello dei tre, fra Ford, Peugeot, Fca, che resterà fuori da quest’ultimo giro di giostra, rimarrà con il cerino acceso in mano, il suo destino sarà segnato.

Come “Ceo ombra” di Fca, trascurati cinesi e coreani, punto tutto su un ipotetico quinto Big. Per me è Peugeot. Nella mia strategia immagino appunto il “consolidamento” del follower Fca nel leader Peugeot come ultima opzione possibile: 9,3 milioni di auto, e quarto posto. Diversi motivi mi hanno convinto a puntare sui francesi: a) l’overlapping prodotto/mercati in Europa è minimale; b) il know how di Fca nel segmento delle “piccole” è storico e di pregio, ipotizzo essere loro le prime vetture a guida autonoma destinate alle città; c) Fca ha tre “plus strategici”: un marchio sportivo (Alfa Romeo) dalla potenzialità in parte ancora inespressa, un brand di lusso (Maserati), un brand Suv di valore mondiale (Jeep); d) i mercati Nord e Sud America, ove Peugeot è assente o marginale, rappresentano un prezioso asset; e) una storia di collaborazione quarantennale sui veicoli commerciali.

E ancora, sempre come “Ceo ombra” sono convinto, quindi terrorizzato, che la “finestra temporale” ancora aperta per questo “consolidamento” si stia chiudendo, e l’esperienza mi insegna che, in questi casi, la situazione tende d’improvviso a precipitare. Quando il fuoco si diffonde tu non puoi più fare nulla, solo chiamare i Canadair, ma per bagnare la cenere. Dopo attenta analisi ritengo non praticabili tutte le altre opzioni strategiche, una Amministrazione come quella di Donald Trump non accetterebbe mai la presenza di un costruttore cinese nell’America bianca dei grandi laghi. L’opzione Ford mi pare difficile in termini culturali (la puzza al naso di costoro è secolare), dopo che Fca è stata rifiutata, e pure male, da Gm.

Ripeto, la strategia è una sola: puntare tutto su Peugeot e fare in fretta. Sulla carta pare un matrimonio ottimale per entrambi: certo, niente quattrini, ormai ci si scambia solo “carta”, gli Agnelli–Elkann possono così sfilarsi dalle “Ruote”, business troppo rischioso per foraggiare qualche centinaia di famiglie di azionisti, non operativi da alcune generazioni, però dal costoso stile di vita (John Elkann si è rivelato molto bravo in questo ruolo, che ricorda il mitico Marchese di Exeter). Il Marchionne degli anni Venti del XXI secolo c’è già, è l’attuale Ceo di Psa: Carlos Tavares, leader dall’impeccabile curriculum.

Rischi? Altissimi, però solo se il matrimonio non dovesse farsi. Dobbiamo sapere che tutto il comparto dell’auto da anni è in movimento, mi ricordano giostre e giostrai della mia giovinezza. E in prospettiva ci sono molte nubi all’orizzonte, i consolidamenti dovranno proseguire, l’aggressione alle spalle delle Top Five di Silicon Valley continuerà (con l’arrogante idea di trasformare nobili costruttori in carrozzieri), l’asticella “volumi” verrà probabilmente alzata ulteriormente (15-18 milioni di pezzi?), forse i Big Five dell’auto diventeranno prima quattro poi tre, i cinesi si faranno via via più aggressivi, la Via della Seta si farà piattaforma … Ma una cosa è certa, sulla giostra bisogna salirci ora, costi quel che costi, chi rimane a terra è morto.

A questo punto, disegnata l’unica strategia possibile, la giornata è finita, così il mio compito, smetto di fare il “Ceo ombra”, mando in tintoria il maglioncino nero, zuppo di umori per l’ansia decisionale che per un giorno mi ha divorato. Torno, sereno, a fare il giornalista. Qua Sergio Marchionne mi raggiungerà presto: come ha detto lui stesso in conferenza stampa, e io gli credo, perché quello del giornalista è un bel mestiere, poco o nulla retribuito, ma affascinante.

Che fare del mio investimento in Fca? Essendo all’antica, appartenendo anche come cittadino a un giardino zoologico diverso, quindi minoritario (liberale sì, ma nature), con me il giochino “carta contro carta” non attacca, preferisco i quattrini: pochi, maledetti, subito, e cash. Delle banche non mi fido, così dei costruttori d’auto. Ho impressa nella mente l’immortale battuta della Lex Column del Financial Times: “Scegliere fra i costruttori d’auto è spesso scegliere il cane con meno pulci”. Chiuse virgolette.

Nel mio ultimo libro “FCA Remain o Exit?” del luglio 2019 (distribuzione@grantorinolibri.it, 10 €) nel pieno dell’ipotesi Renault, scrivevo “…per FCA le opzioni ottimali restano quella GM ovvero quella Peugeot. Meglio star lontani, se si può, dai carrozzoni statali e dai boiardi macroniani”.


LA GRANDE SCONFITTA E’ LA CLASSE DOMINANTE

In Umbria ha vinto il centrodestra, non ci piove, ma per un analista scevro da ideologie la domanda da porsi è un’altra: “In prospettiva Paese, chi ha perso?”. Ormai è incontrovertibile, ha perso la Classe Dominante (la Ruling Class nell’accezione di Angelo Codevilla). E’ una sconfitta sanguinosa per lor signori, perché prima di tutto è una sconfitta culturale. Eppure i segnali deboli c’erano tutti, e c’erano ormai da molti anni. Il modello economico, politico, culturale (mi sono permesso di chiamarlo Ceo capitalism, essendo quello che vorrebbe trasformare donne e uomini liberi in consumatori zombie, e dove al vertice della catena di potere ci sono algoritmi prodotti e gestiti dai sociopatici di Silicon Valley e dai nazicomunisti di Xi Jinping) ha perso. Certamente ha perso la sua spinta propulsiva: non c’è futuro per un’umanità china su un iPhone per cercare app idiote. E allora mettetevi al lavoro, non per liquidare il modello (il capitalismo resta il modello più adatto per quest’epoca di mezzo) ma per superarlo. Il Ceo capitalism è nato vecchio, e ora sa di muffa.

Eppure, Matteo Salvini, in un delirio di onnipotenza estivo, aveva servito ai vertici operativi della Classe Dominante la soluzione su un piatto d’oro zecchino. La sua scelta di rompere l’alleanza gialloverde era assolutamente corretta, per la manifesta ignoranza nel governare dei leader cinquestelle, ma la modalità di comunicarla agli italiani era stata scellerata. Era subito apparsa una furbata, come fosse un prodotto scaduto della sua cosiddetta “Bestia”.

Ma la Classe Dominante non ha saputo cogliere al volo il buono di questa decisione di Salvini: andare alle elezioni. Il momento era soprattutto favorevole per i loro amici del Pd di Nicola Zingaretti che, in un colpo solo, si poteva liberare sia di Matteo Renzi sia dei cinquestelle, entrambi a costo zero. Salvini avrebbe, in parte, pagato nelle urne la sua mossa agostana. Invece hanno preferito trasformare Salvini in un ubriacone da spiaggia (una volgarità politica inaccettabile, queste si pagano), puntare su un personaggio squalificato dall’essere stato Premier del governo gialloverde, un trasformista imbarazzante, dal curriculum politico inesistente e pure oscuro. Inoltre hanno dato spazio a figure museali politicamente impresentabili, come Beppe Grillo e Roberto Fico. Inoltre hanno dimostrato di non conoscere l’intelligenza politica dei cittadini, che non avrebbero mai dato “pieni poteri” a Salvini (la dimostrazione è proprio l’Umbria dove, malgrado una campagna elettorale molto dispendiosa in termini di energie, un porta a porta implacabile, Salvini ha confermato il 38% delle europee, mentre è cresciuta, a mò di contrappeso, Giorgia Meloni, e Silvio Berlusconi è sopravvissuto.

Mi auguro che la Classe Dominante non faccia l’errore del 2011: anche allora, per non andare alle sacrosante elezioni, che il Pd avrebbe vinto, si inventarono, con i loro compagni di merende europei, soluzioni non congrue, scontrandosi con l’immortale sistema selettivo popolare: “Ofelè fa el to mesté”.

Mi permetto darvi un suggerimento sottovoce di un nonno che non ruba il futuro ai nipoti (anzi!): prima che sia troppo tardi tornate a un capitalismo meno arrogante e a leadership dotate di alta intelligenza sociale, dei quali gli attuali vostri kapò di vertice sono totalmente privi (licenziateli tutti!), lasciate gli accademici ai loro importanti studi, investite sui giovani senza umiliare i vecchi (da sempre la loro unione è la sinergia che ha fatto crescere il mondo). Soprattutto, studiate, riflettete, siete in un mondo nuovo, di cui non conoscete nulla eppure pensate di sapere tutto. Soprattutto, cercate di tornare umani, così, semplicemente.

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