Lo ignorano, sistematicamente, i giornali e i media italiani, perché il bene, come noto, non fa notizia, non attira pettegolezzo, non fa aumentare i click e la pubblicità.
Eppure, i ragazzi ascoltano – chi più, chi meno, com’è giusto – relazioni difficili sul tema “c’è una voce nella mia vita…”, il titolo del convegno. Ascoltano letterati e filosofi, si entusiasmano per gli accenti poetici di Davide Rondoni nel suo sottolineare amore e morte, i veri due fuochi della poesia umana, e fanno la fila alla fine per parlargli di amore e di morte.
E così arriviamo alla questione per cui i Colloqui continuano a funzionare e i media continuano a ignorarli. Il fatto è che la manifestazione è imperniata su una lettura di autori del canone scolastico – negli anni si hanno affrontato tutti, da Manzoni a Svevo, da Foscolo a Calvino – impostata a partire dalle domande esistenziali dell’essere umano considerate come il centro della ragione stessa e quindi della cultura. Si tratta dell’ipotesi di leggere la cultura umana come prodotto della ricerca religiosa dell’uomo, intendendo quest’ultima come la ricerca di senso della vita e non il rifugio in qualche forma di superstizione. Non solo, l’ipotesi dei Colloqui è che tutti i grandi autori siano sempre in qualche modo profeti della possibilità di una risposta a tali domande cruciali. Come si capisce dalla raccolta di scritti del direttore dei Colloqui, Pietro Baroni (Lingua mortal non dice, Edizioni Ares, Milano 2024), è un’ipotesi che deriva chiaramente dall’idea cristiana che tutti gli esseri umani siano fatti per trovare – e non solo per cercare – bellezza, verità e giustizia.
Il successo tra i ragazzi, e il silenzio dei media, confermano che l’ipotesi è forte, e rientra in fondo in quella fiducia ultima nell’universalità della ragione che Benedetto XVI chiamava illuminismo cristiano: tutti hanno la stessa ragione, quindi tutti hanno le stesse domande di senso e, se c’è una risposta, tutti possono riconoscerla. A 16-17-18 anni, per fortuna, l’apertura di questa ragione così intesa è massima, anche se alle volte ingenua e facile da ingannare ideologicamente. Ai Colloqui fiorentini non lo fanno: si fanno accompagnare dalle opere dei grandi autori, per dire a tutti i ragazzi che è giusto sentire queste domande e queste esigenze, che è bello cercare delle risposte vere e, se si trovano, seguirle. Tra un cellulare e uno scherzo con i compagni, i ragazzi ascoltano, colgono che questo è il senso della manifestazione, vedono l’interesse dei docenti che li accompagnano.
E quindi non interessano ai media: troppa positività, troppa serietà, troppa anti-retorica sociologica. È difficile ai Colloqui fare della sociologia generazionale: i ragazzi sono ciascuno se stesso e ascoltano poeti e autori che erano se stessi, con i medesimi problemi, anche se sono passati cento anni. Forse, a proposito di analisi, la scuola potrebbe ripartire da manifestazioni così: serie, preparate, interessanti nel format e nella modalità di relazione, e soprattutto fuori dai banchi troppo stretti e uguali, più coinvolgenti in un gesto attivo che nella partecipazione passiva. Soprattutto, potrebbe ripartire da manifestazioni come questa, che già ci sono, invece di sognare riforme e sistemi “perfetti” in cui – come diceva Eliot – “nessuno avrebbe bisogno di essere buono”, o di farsi domande poetiche, cioè umane.