Il termine gesto, che comincia ad assumere una rilevanza centrale in filosofia, può essere inteso in diversi modi ma di certo sottolinea che esiste una dimensione dell’azione diversa da quella produttiva-strumentale e da quella che serve per soddisfare e compiere se stessi. Ci sono anche azioni diverse, che vanno dal gesticolare ai nostri italianissimi emblemi come la mano a borsa o quella sotto il mento (si chiamano proprio Italian gestures) ma che coinvolgono poi parole che sono gesti (come i performativi “prometto”, “giuro”, “dichiaro”) e infine azioni complesse come i riti privati e pubblici, gli esperimenti scientifici, le performance artistiche.
Come però debbano intendersi questi “gesti” è materia di discussione, anche a Parigi, dove il convegno è peraltro arricchito di performance artistiche che coinvolgono pubblico e relatori.
Le soluzioni che si prospettano sono in fondo tre. La mia, basata su matematica e logica, sostiene che i gesti sono azioni con un inizio e una fine che portano un significato: i gesti sono atti conoscitivi dinamici. Fanno capire qualcosa, in vari gradi a seconda del gesto, ma alle volte fanno comprendere persino più di grandi contemplazioni teoriche. Compiendo gesti, capiamo e, allo stesso tempo, comunichiamo.
La seconda soluzione è quella di Formis: i gesti sono azioni senza inizio e fine che portano delle qualità. Sono azioni casuali e contingenti, che però ci introducono in dimensioni estetiche particolari, diverse da quelle della razionalità della parola.
La terza è quella di Giorgio Agamben, uno dei filosofi italiani più celebri: i gesti sono azioni che, come le gag cinematografiche, ci introducono all’assenza del significato, al fatto che le azioni, che riteniamo siano serie, sono in realtà nulla o la strada a quella forma di nulla e di superamento del reale che sarebbe imparentato con il Nirvana buddista.
Quando espongo la mia, sostenendo anche che il linguaggio è un tipo di gesto incompleto, il pubblico parigino si agita. Un simpatico studente si alza, compie qualche piroetta e dice: “Prof, allora qual era il significato di questo gesto? Nessuno, e non è neanche detto che il gesto sia uno solo, visto che ho fatto tanti movimenti”. La risposta è facile: “il gesto era uno solo e il significato era contestare la mia dichiarazione che i gesti avessero significato”. Rumori e risate del pubblico, e poi molte domande e obiezioni: possibile che ci siano ancora dei significati che girano per il mondo? Ma non erano finiti?
Il problema è che quando si dice che c’è un significato tuttora a molti vengono i capelli dritti. “Significato” li rimanda inevitabilmente a termini spaventosi come realtà e verità e ad altri, totalmente tabù, come anima e Dio. Capisco le paure, che nascono anche dalle grandi ideologie novecentesche e dalle loro presunte “verità”, ma nel profondo si tratta di pregiudizi. Se la ricerca, tanto più provata in diversi campi, conduce alla presenza di significati, perché si dovrebbe impedirlo? Nella conoscenza umana, di cui la filosofia è parte e spesso nutrice, vince chi tiene più aperta la categoria della possibilità, come diceva William James, nel finale della sua opera The varieties of religious experience: “Nessuna caratteristica è più propria dell’essere umano della sua volontà di vivere confidando nella possibilità. La realtà della possibilità fa la differenza tra una vita la cui nota dominante è la rassegnazione e una vita la cui nota dominante è la speranza”.