... prigionia – alcune delle quali di pregevole fattura artistica – fanno capire il dramma dell’Inquisizione e le contraddizioni dell’epoca.
I graffiti delle carceri sono stati recuperati grazie al lavoro pionieristico di Giuseppe Pitrè (1841-1916) e all’impegno intenso di Leonardo Sciascia (1921-1989). Il grande scrittore siciliano ha ambientato in queste carceri anche il racconto Morte di un inquisitore, dove ha dato la sua versione dell’Inquisizione come oppressione ecclesiastica violenta e spietata di un libero pensiero, anche ecclesiastico, più sensibile alle differenze di classe e alla giustizia sociale.
In realtà, a osservare i graffiti con cura, emergono considerazioni un po’ diverse e più complesse sulla vicenda dell’Inquisizione, almeno di quella passata per il capoluogo siciliano. Da un lato, infatti, si capisce quanto il dolore e la sofferenza, proprie di ogni carcere, siano più insopportabili quando nascano da una confusione di due piani, quello spirituale e quello politico-sociale. La Chiesa dell’epoca aveva cercato di tenere separati i giudizi spirituali, per l’appunto dati dall’Inquisizione, dalle condanne conseguenti, che venivano inflitte e amministrate dal potere civile. Ma i due poteri erano troppo vicini e, nel caso spagnolo, addirittura coincidenti, e così, spesso – come sostiene lo stesso Sciascia in altri scritti – si regolavano per via religiosa i conti in sospeso della vita civile e, viceversa, i mezzi civili (o incivili) dell’indagine e della carcerazione dell’epoca venivano utilizzati per violare la libertà di coscienza. Passeranno lunghi secoli perché la Chiesa arrivi ad affermare nel Codice di Diritto Canonico (1917) l’assoluta distinzione degli ambiti della coscienza e del governo e, per fortuna, non tollererà mai più la violazione della coscienza.
Più duro e preciso è quindi il giudizio sull’origine dell’Istituzione, ma allo stesso tempo una visita allo Steri fa anche capire come tutto ciò fosse più inscritto nella mentalità dell’epoca di quanto non si pensi. I carcerati dipingono spesso soggetti religiosi, e spesso ne scrivono, non si sa se per ingraziarsi gli inquisitori o per sincera volontà, ma certamente, condividendone la cultura. Sperano che i santi intervengano in loro favore e spesso si identificano con le sofferenze di Gesù. L’odio per gli spagnoli sembra prevalere su quello per la Chiesa, quasi mai rappresentato. Inoltre, le storie dei carcerati fanno capire come spesso – e per via del medesimo errore di concezione – la macchina dell’Inquisizione fosse una banale macchina amministrativa. Nel libro Parole prigioniere (a cura di Giovanna Fiume e Mercedes Garcia-Arenal, 2018) è ben narrato come a un certo punto (1633) le lamentele dei carcerati e dei mercanti di Palermo sul comportamento di un inquisitore capo considerato considerato “altezzoso e arrogante”, nonché “dispotico e assolutista”, facciano intervenire il potere centrale di Madrid che darà ragione ai carcerati sollevando l’inquisitore con regolare indagine. Nelle medesime storie si capisce come in carcere avvengano alcune radicalizzazioni che si concludono in modo tragico – come narrato da Sciascia nel celebre racconto – ma anche una maggior parte di casi comuni che finiscono con l’autodafé (attodifede), cioè un’abiura pubblica con recitazione del Credo, che avviene di norma in un salone dello Steri, e con una condanna alla rieducazione presso i domenicani o, quando più dura, ai remi di qualche galea.
Visitare lo Steri ci rende così più consapevoli di errori profondi e, allo stesso tempo, dell’importanza di non cancellare nulla della nostra storia: mentre capiamo gli errori, infatti, imparando da essi, riusciamo anche a dar conto del perché tanti uomini dell’epoca percepissero come plausibile qualcosa che noi oggi riteniamo ripugnante. Ma non cancellare, guardare ogni cosa, capire fino in fondo nel bene e nel male, è compito di tutti coloro che amano la vera libertà, quella non ideologica.