Parto dal film «Ma mère» di Christophe Honoré: correva l’anno 2004 e la pellicola, già rifiutata a Cannes come scabrosa, veniva demolita dai vari pennivendoli. Alcuni l’hanno criticata per i temi considerati eccessivi, pienamente comprensibile, altri invece attaccavano una regia povera o inconsistente. I critici della seconda schiera sono quelli che più mi divertono perché rappresentano perfettamente l’ipocrisia odierna. La cosiddetta povertà registica altro non è che crudezza e minimalismo, i quali avvicinano troppo all’opera costringendoci a specchiarsi nel peregrinare dei protagonisti. Certo, la più parte di noi non intrattiene libertinaggi sessuali incestuosi, ma condivide probabilmente col giovane Pierre un’atavica incertezza etica.
Così come un film pericolosamente ambientato alle Canarie ci intimoriva nell’interrogare la morale, altrettanto fece nel 1853 la «Traviata» verdiana. Il pubblico del Teatro la Fenice non gradì per nulla un particolare ricorso ad abiti contemporanei nella rappresentazione, in quanto risultava ben evidente quella simmetria sottesa tra palco e realtà. Solamente oggi, dopo un secolo e mezzo, la critica esalta l’opera di Verdi, ricorrendo però a meravigliose sottane ottocentesche che diano quella minima distanza concettuale. Voglio allora citare la scelta di una mia conterranea emiliana, Eddy Lovaglio, che ha recuperato il desiderio del Maestro riproponendo «Traviata» in abiti moderni. «Il pubblico rimase freddo e sconcertato allora, perché in imbarazzo dinanzi allo specchio di quella società che Verdi condannava. Nonostante certe libertà di trasgressione al giorno d’oggi non scandalizzino più, vedere tutto ciò rappresentato sul palco lascia ancora interdetti».