Tuttavia nelle bizzarre dinamiche fatte di postmodernismi e capovolgimenti tipici del nuovo millennio, mi chiedo se forse dovremmo rileggere allo specchio questa concezione.
Si pace frui volumus, bellum gerendum est - se vogliamo fruire della serenità, dobbiamo condurre il conflitto: così esordiva Cicerone ai senatori riuniti nel Tempio della Concordia durante uno dei discorsi più celebri dell’intera storia romana. Parole dure che miravano alla conservazione dei valori repubblicani di dignità e purezza morale, parole dure che furono accolte con l’adeguata gravitas generando conseguenze belliche, parole dure che mi suonano identiche a quelle dell’ex-premier Mario Draghi l’aprile scorso: «Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?»
Fra ieri e oggi vige però una differenza sostanziale: la stabilità sociale era vista come il fine ultimo, da raggiungersi pure con mezzi terribili e necessari, ora la quiete è una comodità da tenerci stretta mentre vogliamo ergerci a eroi combattendo una guerra in smart-working. Il discorso dell’economista non ha raccolto i medesimi consensi della filippica ciceroniana l’anno passato perché quando affermiamo di preferire l’aria condizionata, non temiamo perdere gli agi del quotidiano, ma nascondiamo dietro alla difesa d’una quiete ipotetica lo scontro reale, sapendo di poterlo vedere ben celati dai nostri schermi digitali.
Si vis bellum, para pacem - se desideri faida, prepara l’armonia apparente: così Louis Antoine Fauvelet de Bourrienne riassumeva l’agire di Napoleone, un fittizio pacifismo da mostrare mentre si tramano congiure. Quando torneremo ad avvalorare la pace, magari capiremo come i climatizzatori siano fuori dalla discussione e che l’interrogativo rilevante sia ben diverso: ci serve davvero questa guerra?