LA Caverna


La morte è fuori o dentro la vita?

La morte con la quale tutti entriamo in contatto è una dimensione imprescindibile dell’esistenza. Quello che le conferisce importanza e significato è l’impatto che ha sulla nostra coscienza. Pertanto, è un atto di responsabilità di tutti dare spazio a questo tipo di argomento per renderci più consapevoli del valore della vita. «La meditazione sulla morte è una riflessione sulla vita, sulla sua realtà profonda e sul suo significato» (R. Garaudy). 

Gestire il problema, il dolore e la paura della morte ci aiuta a guardare alla vita in modo profondo e radicale, distinguendo gli aspetti contingenti, superficiali e trascurabili da ciò che è, invece, essenziale e portatore di senso. «Chi conosce la morte conosce anche la vita. E viceversa: chi dimentica la morte dimentica anche la vita» (Ladislaus Boros). Purtroppo, tra i pochi avvenimenti dell’esistenza di fronte ai quali siamo divenuti ciechi c’è la morte. Il suo oblio genera l’oblio dell’esistenza. Il più delle volte l’individuo muore nell’indifferenza e in solitudine «mentre nello stesso minuto tutta la popolazione, al telefono o ai caffè, parla di tratte, di polizze e di sconto». (A. Camus). “Il morire è qualcosa che ciascun essere deve assumersi in proprio” (Heidegger).

La cultura moderna ha cancellato la consapevolezza della morte, ha eliminato ogni senso di finitudine, generando e alimentando l'illusione dell’"uomo eterno" che può tutto e non deve rendere conto di nulla e a nessuno. Siamo convinti della nostra immortalità nonostante che scienza e tecnologia non riescano a eludere il fatto che tutti, prima o poi, dovremo morire. «La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo costatare che in realtà continuiamo a essere presenti come spettatori» (S. Freud).

Il materialismo metafisico ha precipitato nell’oblio ogni valore spirituale. Si disconosce totalmente la finitezza dell’uomo e giunge a compimento il processo in cui l’eternità viene totalmente accantonata a vantaggio di ciò che è precario e contingente (R.Riemen). Oggi si elude la morte, la si teme e così nasce ogni genere di scaramanzia e superstizione. Predominano i piaceri effimeri, i rumori e le dipendenze. I giovani, in particolare, vivono la morte in modo astratto, filtrata dai videogiochi e da tutto quello che gira in rete. Non la percepiscono come esperienza concreta, reale. Tuttavia, il nostro essere contiene il postulato esistenziale di un “Oltre”, poiché abbiamo la tendenza insopprimibile a realizzarci e ad eternarci.

Nella nostra natura umana c’è la necessità di una sicurezza di fondo, una forza per superare timori e dubbi ma nessun essere umano è in grado di offrire “la verità salvifica” (R.Riemen). La morte porta dietro qualcosa di talmente incommensurabile che propendiamo a rimuoverne il pensiero. In realtà, l’idea della finitudine, se riusciamo ad accoglierla, ha un potere vitale poiché è un efficace regolatore di priorità, consentendoci di comprendere il valore del tempo e aiutandoci a non assolutizzare nulla. «Per quanto paradossale possa sembrare, la morte dà alla vita sulla Terra tutto il suo significato profondo, il suo peso specifico, nonché il suo valore spirituale e morale.

Il disordine e il caos della vita moderna, con la sua cacofonia e bruttezza, provengono dall’incomprensione del fenomeno della morte » (Il Messaggio di Silo) “Cerchiamo in tutti i modi di cancellare la morte ma, se ci dimentichiamo che dobbiamo morire, sprechiamo la nostra vita”. (Guidalberto Bormolini) La morte spettacolarizzata dai mass media è paradossalmente celata in istituti e ospedali. Tutto ciò che concerne il morire è stato affidato alle pratiche della tecnica medica più che a quelle degli affetti e della ricerca interiore.

La consapevolezza della propria debolezza e della propria mortalità, invece, ci rende eticamente coscienti di ogni atto e capaci di provare compassione, ci apre al mistero e alla domanda sull’Assoluto, sulla possibilità che esista qualcosa oltre l’immanente. Risvegliati da una seria riflessione sul carattere positivo e solenne della morte, ponte tra il mondo visibile e quello invisibile, senza dubbio, prenderemmo coraggiosamente le misure contro il nostro prolungato smarrimento. Pervaso da un nichilismo corrosivo, per non farsi scorrere dalle cose, l’uomo ha bisogno di essere istruito nella vera Conoscenza: «Il grande problema dell’umanità è l’ignoranza a tutti i livelli» (Dalai Lama).

Se l’immortalità, attraverso la fede, o attraverso la conoscenza e l’esperienza, diventa una convinzione, non vi è più posto per la paura. Tale prospettiva aiuta sicuramente a vivere la morte in modo meno angosciante, più sereno e cosciente. Più si addomestica la morte, più si apprezza la vita vera.

In mancanza di questa visione, vita e morte sono degli opposti senza alcun reale significato, mentre vita e morte sono indissociabili. La mancanza di comprensione del senso della morte è l’altra faccia della medaglia della mancanza di comprensione del senso della vita, anzi, la negazione del senso della morte da un lato e il suo impossessamento dall’altro (es. la rivendicazione del diritto di morire) rappresenta, tragicamente, quell’atteggiamento che, negando il senso della vita, se ne impossessa (es. la selezione eugenetica degli embrioni). La morte ha un senso solo quando la vita ha avuto un suo disegno consapevole, la sua musica e il suo compimento.

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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro

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