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Lewiston Maine

Lewiston è una cittadina di 36.000 abitanti in Maine, conosciuta per esser stata la capitale calzaturiera d’America prima che tutte le aziende fuggissero in Cina, tranne due che ancora fanno scarpe a mano su misura.  Lontana dalla costa e dalle montagne, non è una meta turistica, ha quattro ristoranti in croce, un cinema, bowling e poco più: improbabile ne abbiate sentito parlare.

Per me è molto diverso: ci ho vissuto dieci anni, i ragazzi sono cresciuti li, ho fondato la mia azienda e fatto amicizie che dureranno per sempre. Questo perché, come tutte le cittadine di provincia del mondo, dove le condizioni sono grame e le prospettive di crescita poche, trovi gente onesta, ospitale, che dice “pane al pane, vino al vino”, in inglese. Quando ci siamo trasferiti a Lewiston, perfetti sconosciuti, quante persone si sono fatte avanti per darci una mano, prendersi cura dei bambini, conoscerci. Questo è il Maine in generale, Lewiston in particolare.

Adesso conoscete Lewiston, è famosa in tutto il mondo, purtroppo per il motivo sbagliato. Un disgraziato ha ucciso sette persone al bowling, tra cui una ex collega, ed altre otto persone nel bar del centro. Questo è il cinquecentoventicinquesimo omicidio di massa dell’anno, un qualcosa di normale in America, ma vederlo capitare in uno dei posti più sicuri del paese ha sconvolto tutti. Personalmente, la cosa peggiore è sapere che il disgraziato era stato internato due settimane in una clinica psichiatrica quest’estate, perché aveva dato seri segni di squilibrio proprio nella caserma dove faceva il militare. Come sia possibile che un paziente, diagnosticato, internato, curato per i suoi disturbi e la sua pericolosità, possa metter le mani su un mitra, resta uno scempio. Questa non è la prima volta, non sarà certo l’ultima.

Torniamo sempre lì: i padri fondatori scrissero nella nostra costituzione che possiamo portare le armi, ed ancora oggi le lobby della difesa spendono cifre ingenti per convincerci che non è la pistola che uccide, ma chi tira il grilletto. Chi arriva da un qualsiasi altro paese del mondo, pensa di esser di fronte alla follia pura: se lasci un oggetto pericoloso in giro, o peggio che mai nelle mani di un soldato impazzito, prima o poi qualcuno si fa male. Al tempo dei padri fondatori le armi sparavano un colpo ogni dieci minuti, e pure male: oggi qualsiasi di questi mitragliatori è una condanna a morte sicura.

Ancora una volta i politici danno il peggio di sé: con performance da attori scadenti ci invitano alla preghiera, al non prendere decisioni affrettate sull’emozione del momento, a confortare le vittime. Tra due settimane saremo alla strage numero 600, e tutto sarà passato in cavalleria. Obama, nelle sue riflessioni sui peggiori errori della sua presidenza, non parla delle 29.000 bombe lanciate sui bimbi iracheni o afgani, ma di non aver fatto nulla per il controllo delle armi. E se ce lo dice un Premio Nobel per la Pace, possiamo crederci. Forse.

Eccoci qui: una cittadina dove molti non chiudono nemmeno la porta a chiave, tanto è sicura, dov’è più facile incontrare un cervo per strada che uno straniero, arriva sui telegiornali di tutto il mondo per il motivo più sbagliato. Un paese che non riesce ad affrancarsi dalla lobby delle armi, porta queste stragi. La gente di Lewiston adesso sarà vicinissima alle vittime, e questa ferita si rimarginerà velocemente. Tra una settimana leggerete questo articoletto, e sicuramente nel frattempo ci sarà stata una altra strage, altre preghiere, altro giro di giostra.

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In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro