“Più donne che uomini”. Persuasione

Nel 1971 usciva Sessanta posizioni di Alberto Arbasino, uno dei più vivaci ed illuminanti testi di critica letteraria in cui, con il solito svagatissimo ed eclettico rigore, si collazionavano ritratti di autori ancora poco noti al pubblico italiano, fra cui, appunto, Ivy Compton Burnett, la Grande Signorina.

Nata alla fine dell’ottocento già col nastrino fra i capelli e morta con lo stesso nastrino intorno alla metà del novecento. A testimoniare una vita racchiusa dentro un perimetro solitario, focalizzata frugalmente e caparbiamente sempre sullo stesso libro, benché i suoi titoli siano una ventina. Tutti straniati e perfidi come un agguato.

Difficile capire perché l’editore Fazi, nella meritoria rivisitazione di scrittrici famose, abbia scelto un suo testo. Ancora più problematico immaginare perché sia stato nuovamente tradotto proprio Più donne che uomini (Longanesi, 1950 e Guanda 1994) rispetto ad alcuni capolavori: Fratelli e sorelle, Una famiglia e un’eredità, Genitori e figli, Servo e serva, Madre e figlio, Un dio e i suoi doni. Ma in fondo è un titolo che può’ fungere da cartina di tornasole, essendo ancora oggi una firma talmente rarefatta e luminosamente artificiosa da rappresentare sia la modernità che la post modernità, per palati che apprezzino, nell’ordine: la tragedia greca l’antropofagia di Thomas Hobbes, l’umorismo di William Congreve, la scarnificazione di Jane Austen, Sigmund Freud e gli schemi enigmistici, Agatha Christie, l’arte concettuale e i tè delle cinque. Rinunciando inoltre a qualsiasi intreccio diretto, ambientazione o suppellettile, sussistendo al massimo qualche biblioteca e qualche camino come unico sfondo all’onnipresente rituale dei dialoghi. Mentre gli omicidi, gli inganni, gli amori omosessuali e gli incesti si sprecano, ma sempre dietro a quelle tende che pure non compaiono mai, non esistendo nè la morale nè la società nè le emozioni.

Anche i caratteri e le sembianze dei personaggi sono sempre tracciati dalle loro parole e della qui protagonista Josephine Napier sappiamo solo che è alta e imperiosa, con il culto del dovere e del sacrificio per gli altri. Dirige un avviato collegio femminile, ha un marito, un figlio adottivo che è in realtà figlio del fratello, a sua volta amante ventennale dell’unico insegnante maschio. Finchè viene raggiunta da un’antica conoscente con figlia al seguito, e ci saranno tre funerali , due matrimoni e un po’ di cambi d’abito, mentre il coro delle educatrici chiosa da lontano, presentate in fila l’una dopo l’altra come i dieci piccoli indiani. 

L’unità di azione e di luogo è rispettata, mentre l’elemento tempo scorre e riaffiora secondo modalità da romanzo d’appendice, essendo sia l’incredibile che lo straordinario ridotti alle abitudini del giorno dopo giorno. Ognuno parla e risponde, tutti con lo stesso tono e con la stessa voce, e il dichiarato è talvolta intenzione, talora menzogna o occultamento, talaltra disvelamento oppure criptica allusione a eventi ignorati dal lettore. Ogni famiglia ha i suoi codici, e bisogna avere orecchio o rileggere due volte la stessa frase per appropriarsi di incastri, sfumature e ironie che rispondono ad una sublime forma di concentrazione e di sintesi. 

Nel caso di questo titolo ne vale la pena solo a metà, ma gli altri sopra citati sono da leggersi tutti, salvo che non ci si ritragga già da questo. Con la Grande Signorina non esistono mezze misure e anche se i contenuti non sono più inammissibili, il timbro misterioso della sua estrema diversità intellettuale ed espressiva rimane intatto, ma esige un’empatia spontanea, oltre all’attenzione , alla pazienza e ad una certa dimestichezza con le lettere. 

Più donne che uomini di Ivy Compton Burnett, Fazi 2019, 260 pagine, 19 euro

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