I raffinati clienti dell’alta hôtellerie li avevo conosciuti, l’alta cucina tutta basata su roux e impiattamenti artistici pure, quel mondo esclusivo non sarebbe mai diventato il mio. Decisi che poteva bastare. Era ora di tornare a Castel Vittorio, un piccolo borgo del Novecento dopo Cristo, a un tiro di schioppo dal confine con la Francia.
Dovevo tornare ai miei boschi, agli animali che li popolano, ai funghi nascosti ma che spesso io trovavo, soprattutto ai miei olivi di cui, fin da piccolo, ero stato innamorato. Chi non conosce l’oliva taggiasca, piccola e nervosa, non può immaginare cosa sia il suo olio, se poi gli olivi sono a 500 metri di altitudine, come i miei, di più. Scelsi il locale, il nome Italia era già incorporato, non potevo chiedere di più. Venni a sapere che un ristoratore della provincia, un tempo importante, era ormai vicino alla chiusura, vendeva gli arredi. Mi innamorai delle sue poltrone di pelle che molti, molti anni fa dovevano essere state kitsch, ma l’usura del tempo le aveva rese bellissime, almeno per me. Mi face un prezzo basso in quanto, secondo lui erano “rovinate”. Tacqui: per me erano state “esaltate”.
La prima volta che venne a trovarmi l’editore di Zafferano, mi disse che aveva avuto un’imbeccata, volle mangiare il mio pane di lievito madre inzuppato nel mio olio, la torta verde detta “turtun” (disse “è quanto di più alto la cucina povera ligure abbia saputo produrre”) e i ravioli di borragine di magro con il mio olio. “Senza parole” il suo giudizio. Dalle finestre del mio ristorante si domina la valle, e la mitica Pigna, dai fagioli rotondi e perlacei. Pigna ci mette i fagioli, io la capra: ne esce un piatto strepitoso. Vi dico una cosa sola: nel rapporto qualità prezzo non temo nessuno.
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