Bruxelles


Il Kang nascosto che raddoppia i punti, e il sorriso

Li conosco bene, i cinesi. Mia nonna, piemontesona del ’99 trapiantata sull’isola di Giava, diceva sempre che “un cinese, un soldo lo trasforma in due e i due li fa 4 e così via; se non gioca d’azzardo...”. Poi il suo: “Dovremmo tutti prendere esempio”, era una costante. Quando una dittatura incipiente ci indusse benevolmente a cambiare aria, il business di famiglia mia nonna lo vendette a una famiglia cinese. Il signor Tan non lo moltiplicò ingrandendolo al massimo come probabilmente avremmo finito per fare noi, ma...

...lo conservò e lo espanse con misura e prudenza, mantenendolo florido e passandolo fino a quella che oggi è la terza generazione della nuova proprietà, ormai totalmente assimilata alla nazione che li ospitò quando i loro progenitori fuoriuscirono ai primi dei Trenta dalla poco pacifica guerra civile cinese fra Mao e Chiang Kai-shek. Robe d’altri tempi che neppure più si studiano a scuola, ma che marcano e segnano decenni di relazioni e commerci.

Avevamo chiaramente fretta di vendere; i Tan non ne approfittarono oltremisura e ci consentirono una dignitosa ritirata e rientro in Europa - la nozione di “Italia” nonostante i passaporti la lingua e la cultura, arrivò più tardi: a casa si parlava con rispetto di Europa e di Europei, con l’accantonamento delle nazionalità. E anche queste sono cose che segnano.

Bene: quando tornai, ai miei trent’anni, nella casa della mia infanzia per una visita spinto da curiosità, e senza essere preannunciato, impossibilitato a mantenere un letterario anonimato, mi accolsero e trattarono, esuli loro ed esuli noi, con incondizionato rispetto e affetto e per molti giorni, come uno di famiglia. Un inchino; e imperitura gratitudine per la lezione di vita. Il business di famiglia è ancora lì, porta ancora il mio cognome, e mantiene i nostri vecchi marchi; ha passato i 90 anni e compirà sicuramente il secolo. Perseveranza, coerenza e dedizione. Sforzo collettivo, di famiglia, per il bene comune.

Certo però che a leggere il sofferto percorso che ha portato alla firma in video conferenza su piattaforma CiscoWebex dell’EU-China Comprehensive Agreement on Investment (CAI), la Cina appare trasformata e la percezione di potenza irrefrenabile appare, nelle pieghe della lingua diplomatica, ma chiara, dei trattati, confermata e definitiva.

“Con l'accordo globale UE-Cina sugli investimenti (CAI), l'UE cerca di creare nuove opportunità di investimento per le società europee aprendo il mercato cinese ed eliminando leggi e pratiche discriminatorie che impediscono loro di competere sul mercato cinese su base di parità con le società cinesi e società di altri paesi terzi”. Meditare su: “nuove”, “investimento”, “aprendo”, “eliminando leggi discriminatorie che impediscono”, “parità”.

Era il comunicato ufficiale della Commissione Europea. Secco, ma chiaro. “Il presidente Xi Jinping ha dichiarato che il trattato sugli investimenti tra la Cina e l'UE darà un contributo significativo alla costruzione di un'economia mondiale aperta”. Così il Presidente. Così alle tre e mezza del mattino di San Silvestro è stata rinfrescata la prima pagina del sito del Quotidiano del Popolo rilanciando una nota di qualche ora prima dell’agenzia Xinhua, la famosa Agenzia Nuova Cina, fondata dal Partito Comunista Cinese nel 1931 e “subordinata al controllo del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese”. Molto cinese. L’accordo sarà approvato in differita dal Parlamento Europeo, a cose fatte, probabilmente già nella prima seduta del 2021, a partire dal 18 gennaio.

Il trattato è partito nel 2012, il giorno di San Valentino. In quattro pagine e spiccioli, definito in 31 punti, Cina e UE si dicevano convinti che fosse arrivato tempo per un accordo a vasto raggio e riconoscevano la traiettoria di interdipendenza di nazioni ed economie a venire. Ci sono voluti sei anni per dirsi pronti a cominciare un negoziato sui contenuti. Nel frattempo l’Europa ha perso qualche treno in transito sul commercio mondiale, mentre la Cina, imperterrita ha continuato un’espansione programmata e dato corpo alla sua iniziativa “Belt and Road”, frettolosamente bollata da noi come la nuova via della seta, mentre è un insieme di strategie e progetti commerciali, infrastrutturali e investimenti che culminano oggi con questo accordo globale sugli investimenti (link), scaturito da un rinnovato impegno nell’aprile del 2019 e approdato fra Natale e Capodanno, costringendo i funzionari di Commissione a vacanza di Natale ultracorta e imponendo un tour de force agli ultimi sforzi lobbistici per smussare da una parte o allargare dall’altra aspetti e pieghe di una reciprocità di investimenti in molti settori che potrà davvero influenzare lo sviluppo di più settori economici e ridisegnare mappe d’influenza in una maniera inattesa.

Infatti, se l’accordo manterrà le promesse, si potrà accedere con investimenti diretti sul mercato cinese e nel Paese senza ostacoli e barriere burocratiche o non tariffarie di diversa natura; e questo in settori anche ritenuti chiave appianando le diversità fra le possibilità accordate nelle due aree agli imprenditori (il cosiddetto level playing field, terreno di gioco livellato) nel contempo impegnando la Cina a essere trasparente sulle sue tante e importanti aziende a controllo statale e sulle sovvenzioni a queste accordate.

L’Europa destina il 28% dei suoi investimenti in Cina nel settore automotoristico, 28%, e delle materie prime di base, chimica inclusa per il 22%. Servizi finanziari, agroalimentare e prodotti di consumo sono tutti sotto il 10%. Investimenti nel settore energetico sono al 5%, così come i macchinari industriali, prodotti per la salute e i biotecnologici.

C’è comunque una vasta area dove la cultura cinese e la consolidata natura di business di stato verrà messa a dura prova. L’accordo prevede una serie di impegni per praticare una
concorrenza leale inducendo le imprese a proprietà statale a prendere decisioni motivate solo da considerazioni commerciali e senza discriminare le imprese europee quando acquistano beni o servizi da loro o vendere beni o servizi a loro. Inoltre, la Cina si impegna a condividere le informazioni e intervenire qualora il comportamento delle imprese statali influisse sugli investitori europei. L’elenco è lungo, ma gli aspetti salienti comprendono la richiesta di assenza di interferenze circa la libertà contrattuale per quanto attiene tecnologie e know-how: uno strumento a doppio taglio di una certa importanza. In cambio, maggiore trasparenza, protezione delle informazioni aziendali riservate e del segreto industriale e pari accesso per quanto attiene l’accesso agli organismi di definizione degli standard per l'UE. A contorno, impegni di massima sul rispetto delle normative internazionali sul lavoro e sui diritti dei lavoratori.

Mi scrive una fonte diplomatica “vicina al dossier” un suo pensierino la sera prima dell’annuncio dell’accordo: “La Cina è già al post COVID e in pieno recupero, ma ha bisogno di fiducia dall’Europa e non vuole rimanere isolata. È stata poca cosa, ma il ricentraggio in Europa di alcune produzioni in seguito alla pandemia li ha terrorizzati. Il sistema non potrebbe sostenere un’Europa che trova unitarietà e denaro per riportare sul Continente produzioni e chiudere la porta all’acquisizione di tecnologie. Sono disposti a rinunciare a parte del business per conservarne abbastanza”.

Molto cinese. Infatti, nel non antichissimo ma praticato e tradizionale Mah Jong fatto di pung, kong e kang (due tipi di tris e poker) il cedere un po’ per vincere di più e fare più punti, è principio capitale. Certo, Frau Merkel voleva chiudere la sua presidenza dell’Unione Europea mettendo a posto anche questa partita. Le luci della rappresentanza permanente tedesca, pochi passi alle spalle del Consiglio Europeo, erano accese anche nel pomeriggio di Natale e lo sono state a lungo nei giorni successivi, quelli che i tedeschi e non solo loro normalmente usano per “scivolare” benevolmente nell’anno nuovo.

Gli aspetti di reciprocità e la possibilità di investire in settori anche importanti hanno allarmato, nei giorni della finalizzazione dell’accordo, non solo tedeschi ma anche francesi, spagnoli e italiani, tutti con le delegazioni a tiro di voce fra loro e con funzionari precettati per evitare complicazioni e sorprese. Porti, infrastrutture ferroviarie di interscambio merci, trasporto su ferro... forse poco sexy e non troppo appariscente, ma ossatura di investimenti nel manifatturiero a valore aggiunto che danno forma e generano prodotto nazionale lordo vero e tangibile. Da una parte e dall’altra.

Nei giorni della distrazione di fine anno, con giornali latitanti e media distratti dal recupero dell’intrattenimento per famiglie, con l’aggiunta del caleidoscopio delle zone e i quiz sulle frequentazioni possibili per cenoni e festeggiamenti, in Italia ci si è limitati a una espressione di irritazione per il fatto che alla firma on line dell’accordo erano presenti sullo schermo solo i vertici della Commissione e del Consiglio europei, la signora Merkel in quanto presidente di turno dell’Unione. Si era imbucato Macron (ma la casualità pare difficile: i codici di accesso a quel tipo di chiamate sono centellinati e sotto stretto controllo) e tanto è bastato per riferire, in prima pagina, della nostrana furia per essere stati esclusi dall’incontro virtuale; senza peraltro spiegare contenuti dell’accordo e cosa significasse per chi ritiene si sia noi i migliori amici di Xi e i paladini della Cina in Europa –due leggende, una volta di più, frutto di uno storytelling da precari.

Adesso vediamo come questo meccanismo si mette in moto e come si traduce nella serie di protocolli e intese che daranno sostanza all’accordo nei fatti dell’economia, dei commerci e delle relazioni di geopolitica commerciale. Londra con Brexit ha riacquisito indipendenza operativa. Gli USA in transizione politica escono da una lunga fase allergica nei confronti della Cina e probabilmente, nonostante Joe Biden, si è tutti convinti che ci vorrà tempo prima di raggiungere unitarietà di valutazioni e intenti sull’argomento, come peraltro dimostrato dalla richiesta di posporre l’accordo Euro-Cinese in attesa appunto della presenza del nuovo Presidente alla Casa Bianca. L’Europa che “si smarca e delinea la sua politica commerciale riconsegna un certo vigore a tutti i dossier aperti e pone un perimetro diverso allo sviluppo della sua presenza internazionale”, mi dice uno degli elfi del Consiglio Europeo che ha lavorato alle ultime stesure dell’accordo.

Certo che il giorno prima del suo annuncio ufficiale, l’Europa aveva rimbrottato la stessa Cina per “le restrizioni alla libertà di espressione, all'accesso alle informazioni, alle intimidazioni e alla sorveglianza dei giornalisti, così come le detenzioni, i processi e le condanne di difensori dei diritti umani, avvocati e intellettuali in Cina, che stanno crescendo e continuano a essere fonte di grande preoccupazione. Questo dopo che il 28 dicembre il tribunale del popolo di Shanghai ha condannato Zhang Zhan a quattro anni di reclusione per ‘aver litigato e creato problemi’. Prima della sua detenzione, Zhang Zhan aveva riferito della pandemia di coronavirus a Wuhan”.  Zhang Zhan è stata maltrattata e torturata e “ai suoi avvocati difensori non è stata data possibilità di presentare una dichiarazione di difesa in conformità con il diritto processuale penale cinese”. Per questo “l'Unione europea chiede l'immediato rilascio di Zhang Zhan, e di altri difensori dei diritti umani detenuti e condannati, così come di tutti coloro che si sono impegnati in attività di rendicontazione nell'interesse pubblico”.
E aveva appena chiuso con grande sforzo, e indecoroso procedere, la lunga polemica per sottomettere paesi dell’Unione quali Ungheria e Polonia al rispetto dello stato di diritto prima di consentirne l’accesso ai fondi del piano Next Generation Europe, o recovery fund.

La Cina non fa una piega, come da tradizione millenaria. Sono questioni diverse, che hanno loro ambiti di discussione e loro tempi di discussione. A chi sa attendere, il tempo apre ogni porta, dice un proverbio ovviamente cinese. E la pazienza, insieme con la perseveranza è quella che fin qui ha contato. Apparentemente, da ambo le parti.

Nel gioco del Mah Jong i due tipi pung, il kong e il kang hanno un punteggio che raddoppia, secondo la loro gerarchia, da 2 a 16 punti. Il gioco è tutto sommato semplice, potrebbe somigliare al nostro ramino. Chi “chiude in mano”, tenendo celando il suo gioco, può vincere poiché le combinazioni nascoste valgono doppio. E calando il kang nascosto da 32 punti, è difficile che si riesca a trattenere un sorriso di raro ­­­autocompiacimento. Li conosco bene, i cinesi.

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