E così, raccogliendo uno stimolo del Signor CEO, il personaggio fumettistico digitale delineato dal nostro editore, ho approfondito i tratti della “generazione Erasmus”. Si chiedeva il triplo concentrato di amministratore delegato: “Quando capiranno i giovani Erasmus che il loro destino è segnato? Si lamentano perché “precari” ma con il prossimo gradino scenderanno a “volontari”, per poi arrivare allo stadio finale “elettrificati”. Qua le loro emissioni di CO2 saranno personalizzate”. Sicuramente con conseguenze lontane da quelle che Desiderius Erasmo da Rotterdam aveva auspicato per l’evoluzione dei più sofisticati fra i contributori del pensiero nei decenni a cavallo fra 1400 e 1500.
Intanto il destino è segnato perché nel 30 e passa per cento dei casi torneranno dalla loro esperienza con una neppure troppo giovanile cotta per un partner conosciuto nel programma Erasmus, probabilmente Erasmus anche lui/lei e nel 40 per cento dei casi la loro vita si svolgerà da quel momento in poi, prevalentemente fuori del paese di provenienza. La ricaduta sociale è stata fin qui la produzione di un po’ oltre di un milione di figli, virgulti europei per default, come aveva descritto Umberto Eco occupandosene circa 10 anni fa: “La vera rivoluzione sessuale europea”. Un catalano indipendentista e una fiamminga separatista si incontrano si sposano e si riproducono generando un vero europeo, diventando veri europei anche loro e quantomeno fondendo lingue culture etiche e im/moralità, creando prodotti umani di straordinario interesse.
Il Signor CEO stava attento alle reazioni e alle conseguenze che emergono in età più avanzata di quella dell’amorazzo universitario con corredo dei primi sprazzi di serietà programmatica e prematrimoniale, ma soprattutto stava attento alle conseguenze che ricadono già oggi su quanti potevano essere ascritti alla generazione Erasmus, ma che non lo sono stati creando anche nei giovani sotto i 25 anni una classificazione per caste informali che influiscono pesantemente sulla qualità dei curricula e delle ricerche di primi impieghi qualificati.
Negli ultimi anni ne ho visti passare svariate dozzine e oltre una ventina sono riuscito a ingaggiarli, come “interns” (meno volgare di stagista, me è la stessa cosa), circa la metà di questi li ho confermati nel ruolo quasi sempre combattendo miserande battaglie con uffici del personale generalmente ritentivi su cifre d’organico e stipendio; moltissimi li ho indirizzati verso altre opportunità cercando di seguirli nella loro evoluzione e sono felice che buona parte di loro abbia oggi posizioni di grande interesse e che siano in evoluzione in aziende italiane o europee in genere.
Degli ultimi tre che ho assunto, la più fessa aveva due lauree (legge e diritto fiscale europeo) prese in due lingue diverse. Il più sveglio ne parla cinque e studia con profitto l’ebraico antico inseguendo come hobby una laurea in teologia che forse gli cambierà la vita. In partenza, ragazzo con padre fuggitivo in tenera età e di modesta famiglia alsaziana; è licenziato in scienze politiche, Diritto Europeo e lettere e filosofia. Si occupa di progetti europei e passa le sue giornate con manipoli di ingegneri, divertendosi. A 33 anni ha sposato la sua collega Erasmus, una americana di padre francese che lavora oggi nelle istituzioni europee; hanno due figli.
Mi chiedo quindi: quanto davvero gioca o pesa il destino cinico e baro, il grande disegno delle classi dominanti nella produzione di precari sulla via di diventare “volontari” per essere “elettrificati” e costretti a mettere mano al portafogli (magari tenuto in vita dal reddito di cittadinanza) a ogni peto?
Non è che anche noi (?) parte dell’élite, o dei sottopanza dell’élite, abbiamo cessato di assolvere al nostro compito basilare, che è quello di spingere, stimolare, indirizzare. Fiutare i potenziali, infondere coraggio e consapevolezza e trasmettere se non nozioni sensazioni, valori o alternative di valori? Perché se abbiamo rinunciato a condividere l’etica, non c’è Erasmus vero o metaforico che tenga; e l’ascensore sociale tanto caro all’Editore non riuscirà neppure più a essere il lento tapis-roulant che è diventato.
Temo quindi che tocchi a noi restaurare fra gli Erasmusean, termine usato qui per raccogliere la generazione nella fase di passaggio fra i 24-25 e la prima trentina, la possibilità di vedere oltre “il divano”, i “navigator”, il “reddito” ottriato che riduce la dignità della cittadinanza; e di agire per migliorare nell’ambito delle loro possibilità, ma con l’esigenza del loro massimo impegno (sta qui il patto etico) le loro chances di accomodarsi laddove si ridistribuiscono le carte. Con la consapevolezza che non si sta giocando a black-jack, ma al sofisticato bridge della vita reale.
Ero bimbo, si andava in vacanza nella alta Valcamonica in un posto ignoto e senza fronzoli; il clan familiare affittava tutte le estati case fra loro vicine per trascorrere i mesi estivi nella mistura di zii, cugini di vario grado, amici e assimilati. Al piano di sopra abitava un maestro elementare della scuola del paese. Figlio di casari da malga, aveva avuto il suo diploma alle magistrali e insegnava in giacca e cravatta: orgoglio del padre ricurvo e della madre col fazzoletto nero in testa e la gerla in spalla. A trent’anni, tutti i giorni studiava alla scrivania appoggiata alla finestra che non potevo non vedere rientrando dai giochi nelle pinete. Perché studia se è già lui che insegna? la domanda a mia nonna. Per migliorare, andare avanti, provarci. Fa fatica ma non smetterà. Il Maestro B. mi dice oggi Google, è mancato un anno fa ultraottuagenario. La sua caparbietà mi ha richiamato una frase, chiara e fulminante, di un altro Grande Vecchio di fronte a un compito ingrato: sarà pure una schifezza, ma ci compete; come salvare i bagliori di pensiero di Desiderius Erasmus Roterodamus.