Notizie dagli USA


Fine del castello di carte Russiagate

Verso la fine delle presidenziali precedenti, quando Trump si avvicinò nei sondaggi a Clinton, cominciarono ad uscire notizie, indiscrezioni e congetture sul fatto che la candidatura repubblicana fosse sponsorizzata dalla Russia.

Meglio ancora, che Trump era nelle mani di Putin, un agente al soldo del demonio russo che avrebbe ribaltato il nostro paese. E dopo l’insediamento del Donald, la forza del Russiagate aumentò a dismisura: inchieste del FBI (che non portarono a nulla) e ben 51 agenti dei servizi segreti che spergiurarono alla stampa che dietro a tutto c’era solo il nostro nemico di sempre, la Russia. Ancora in tempi recenti, quando venne fuori che nel computer di Hunter Biden (geniale figlio di Joe e capace di guadagnare $50.000 al mese in Ucraina) c’erano le prove della sua corruzione ucraina, tutto smentito dal Russiagate. Il computer non esisteva, se esisteva era stato messo li dai russi, e comunque il cane l’aveva mangiato e non se ne poteva parlare.

Per fortuna in America esistono ancora giornalisti veri, segugi che non mollano l’osso, come pure in Italia abbiamo la preziosa Stefania Maurizi che da anni ci illumina sullo scandalo Assange. Alla fine, i giornalisti investigativi trovano il bandolo, i nodi vengono al pettine: oggi abbiamo le prove che il Russiagate era un castello di carte, fuffa in purezza, bugie dozzinali. Chi volesse dettagli, qui.

Dobbiamo perdonare chi s’è fidato dei media mainstream: come fai a non credere a 51 agenti segreti, che per lavoro mentono anche alla loro mamma, coniuge e figli? Come possibile dubitare dei giudici e magistrati svedesi ed inglesi che per anni hanno rimbalzato l’accusa di violenza sessuale ad Assange, senza mai interrogarlo, senza mai esibire le prove, senza mai giudicarlo per tenerlo nel limbo ed imprigionato per anni? E che ora, presi con le mani nel sacco, ci raccontano di aver perso tutti i documenti probanti, mangiati dal solito cane che da piccoli ci divorava i compiti per la maestra?

Il Russiagate è, come per il Covid, narrazione totalitarista. In “The Psychology of Totalitarianism” (che raccomando assai), Mattias Desmet spiega come il Covid assomigli alle altre crisi recenti: dal terrorismo, Russiagate, cambiamento climatico, adesso alla guerra ucraina. Per ognuna di queste crisi, politici e media mainstream puntano ad una soluzione sola: darci una verità assoluta ed aumentare il controllo sulla popolazione. Il totalitarismo nasce dall’idea balzana che esista una sola verità. Esso è l’esatto opposto della scienza, che al contrario è apertura mentale, coltivazione del dubbio e lavoro sull’incertezza. Se pensiamo che il 50% delle ricerche economiche non si riesce a riprodurre, e che la percentuale sale al 60% per le ricerche sul cancro ed 85% per quelle biomediche, ci rendiamo conto che i competenti non sono una fonte affidabile di verità, ma di dubbio. E fidarsi degli agenti segreti è veramente inopportuno.

Seguendo Hanna Arendt, il sintomo del totalitarismo è l’individuo che non riconosce più la differenza tra finzione e realtà. Quando ci dicono che uno come Trump è al soldo di Putin, dobbiamo prender la cosa con tre badilate di sale grosso, non solo un pizzico. Il totalitarismo serve alle élites, a controllare i popoli arricchendosi, mettendoci davanti al naso la crisi di turno per portarci a spasso dove vogliono. Che sia il cambiamento climatico, il fratello taiwanese o ucraino, il Covid o il demonio russo, queste narrative catastrofiche vanno sempre rifiutate, ed ancor più dobbiamo rifuggire l’idea antiscientifica di una verità che ci viene calata dall’alto. Serve ragionare del dubbio, e se serve, prendersi un bel bicchiere di Barbera D’Asti Superiore.


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In questo numero hanno scritto:

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Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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