Notizie dagli USA


Ancora su Affirmative Action

Il 73% di tutti gli americani pensa che le università non dovrebbero tener conto di razza o etnia nella selezione degli studenti, 7% è convinto del contrario, ed un 20% di Ponzio Pilato a stelle e strisce pensa che un minimo andrebbe considerato. La levata di scudi di cui ho raccontato due settimane fa, per cui la Corte Suprema si prepara a decidere della causa tra un gruppo di studenti cinesi e due pesi massimi come Harvard ed North Carolina (UNC), ha mandato i woke di Harvard in fibrillazione (qui).

La loro strenua difesa di questa discriminazione non mostra l’elefante nella stanza: prendendosela con gli studenti cinesi, non devono eliminare i ricchi concorrenti bianchi. Già, il 30% degli studenti di Harvard viene dalle famiglie più ricche degli USA, quelle che guadagnano più di mezzo milione di dollari l’anno. Un altro 15.5% di ammissioni è riservato ai figli e nipoti di chi è già passato da Harvard. Cosa c’è di meglio di dire che i secchioni di origine asiatica non hanno le soft skill e la personalità adatta per questa prestigiosa istituzione? (chi non crede ai propri occhi, qui). Così ammettono un numero minimo di studenti neri per salvare le apparenze, e tengono la coscienza ed il conto in banca a posto.

L’affirmative action originale è del 1965, per bocca del Presidente Johnson che ci dice: “la Libertà non è sufficiente…Non potete prendere una persona, che è stata costretta in catene per anni, la liberate e portate sulla linea di partenza e poi dite “sei libero di competere con tutti gli altri”, e poi pensare che sia fair play”. Fu proprio lui, con ordine presidenziale (qui), a stabilire il divieto di discriminazione per razza, colore, religione, sesso o etnia. In altri termini, affirmative action non significa stabilire delle quote, dare trattamenti preferenziali o garantire dei risultati, ma fermare le discriminazioni e creare nuove opportunità che prima erano negate a minorità e donne.

Dal 1965 ad oggi, l’interpretazione corretta di affirmative action non è discriminare il cinese perché bravo o il bianco perché ricco, ma fare in modo che un’università o un’azienda alla ricerca di talenti lo faccia sulle base delle qualifiche per quel posto da studente o di lavoro. L’esperimento democratico americano non è terminato, e bene che vada saranno i nostri nipoti a capire come finisce, perché in questo istante i bianchi sono il 48% dei laureati ma il 96% dei CEO, l’86% dei professionisti e l’85% dei professori ordinari nelle università. È dalla fine della guerra civile americana che si susseguono leggi per rimediare gli effetti della schiavitù, la strada è ancora lunga.

Cosa significa questo per chi legge dall’Italia, dove il 92% della popolazione è bianca ed italiana? Qui ho amici emigrati da moltissimi paesi, arrivati ed accolti sufficientemente bene per costruirsi una famiglia, un’impresa, una professione. Accoglienza ed opportunità poi si traducono in maggiori risultati per il paese: capire e mettere in pratica la vera affirmative action, e non quella male-interpretata dai woke, aiuta sempre, da entrambe i lati dell’Oceano.


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In questo numero hanno scritto:

Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro