...ma in quel caso il collegamento era forse più immediato essendo la Venere il “manifesto” di una donna oggetto e vanitosa, ornata solo della sua nudità per il piacere dell’uomo.
Perché i giovani eco-attivisti invece di lanciare la zuppa sui Girasoli di Van Gogh non si incatenano, che ne so, davanti alla Borsa? Perché invece di gettare il purè su Monet, non occupano le stazioni di servizio? C’è chi afferma che la loro potrebbe essere una forma di resistenza post-situazionista, uno “slittamento della performance” che diventa un’azione politica.
Negli ultimi anni ha infatti preso piede quello che viene definito “artivismo” una via di mezzo tra l’arte appunto e l’attivismo. Una pratica dell’insubordinazione peraltro già presente nella poetica dadaista ma anche in Joseph Beuys, che negli anni Sessanta dichiarava: “Non ho nulla a che fare con l’arte e questa è l’unica possibilità per poter fare qualcosa per l’arte”. Beuys voleva andare in contrasto con la produzione di artefatti sempre più scadenti, e di cui ci si poteva sbarazzare facilmente, per lasciare spazio ai nuovi. Una tendenza, questa della “produzione distruttiva”, che si scontra con l’aspirazione dell’opera a essere trasmessa alla posterità.
L’hasard è comunque già uno dei principi della poetica e tecnica dadaista in Marcel Duchamp: come è noto la rottura accidentale del “Grande Vetro”, il suo capolavoro, è diventata parte essenziale dello stesso. Forse i giovani eco-attivisti senza saperlo sono dadaisti: la loro è una polemica contro l’arte istituzionalizzata e asservita alla logica mercantile e capitalistica. Oppure membri dell’Outsider Art il cui requisito essenziale è … che non siano “artisti” ma soprattutto non sappiano di essere tali.
Subito mi viene in mente però quell’autoritratto intenso e terribile di Van Gogh dopo il tragico gesto di amputarsi l’orecchio: l'artista con la fascia intorno alla testa che si fuma la pipa. L’autentica esperienza estetica, per dirla con Adorno, non ha a che fare con il sentimento di piacere in cui il soggetto riconosce sé stesso, bensì con lo scuotimento e con la consapevolezza della nostra finitezza. È una scossa, non una zuppa.