Supplemento


Spremuta di Camei

FCA, I CONTI IN TASCA AGLI AZIONISTI

CASO ILVA. INNESCO A UNA TEMPESTA PERFETTA?

FCA, I CONTI IN TASCA AGLI AZIONISTI

Dopo che alcuni giornali cartacei e digitali hanno ripubblicato un mio Cameo del 2017, dove avevo imbroccato un certo scenario (nessuna magia, il business e il management hanno loro logiche, alle quali non si sfugge), mi hanno invitato a dibattiti pubblici su Peugeot-FCA. Ho declinato. Non aveva senso fare il pierino ripetendo quello che scrivo da 10 anni in Camei, interviste, libri. E poi conosco i miei amici delle élite, se scrivi quello che poi si avvera ma a loro non piace, ti danno del cinico (uno mi ha dato, chissà perché, del “populista”).

E’ stato l’ultimo atto della strategia concepita, in modo impeccabile, da Sergio Marchionne nel 2009 e sempre dichiarata: focalizzarsi esclusivamente sugli interessi degli azionisti. Fatto! In 10 anni questi hanno incassato prima lo scorporo di CNH e Iveco, quindi lo scorporo di Ferrari, poi il cash (6 miliardi) per la vendita di Magneti Marelli, ora il cash per la vendita di FCA con premio fantozziano. Il tutto partendo da un’azienda tecnicamente fallita (come certificato da Moody’s nel febbraio 2009) quale era Fiat Auto.

Molti in Italia fingono di dimenticarselo, ma Chrysler e Fiat furono “salvate” nel 2009 dai quattrini e dalla volontà politica del Presidente Obama e dalle eccezionali capacità di deal maker di Sergio Marchionne, punto. I governi italiani di centro destra e di centro sinistra dell’epoca si guardarono bene dal fare come Obama (“nazionalizzare per poi privatizzare”, mantenendo però “governance, cervelli, lavoro” in Usa). Fu lì che l’Italia perse la sua centenaria industria dell’auto seguendo teorie intellettualoidi di miserabili leadership nostrane. Ora ci sono rimasti quattro stabilimenti di montaggio in croce, il cui destino è nelle mani dell’acquirente francese. Se ne prenda atto.

Ora l’establishment politico, economico, culturale nostrano parla di “nozze”. Dovrebbero sapere che quando il compratore liquida al venditore un cedolone” da 5,5 mld per la governance è fatta. Alla chiusura di martedì 29 ottobre FCA valeva 18,5 mld, Peugeot 22,6. Sottraendo da FCA i 5,5 mld del “cedolone” e il valore di Comau (0,25 mld) e da Peugeot il valore di Faurecia (2,7 mld) si arriva alla capitalizzazione teorica di mercato, rispettivamente di 20 mld per Peugeot e di 13,25 per FCA. In pratica Peugeot si è “comprato” FCA pagando un premio del 25-32% (E’ stata brava Exor nella negoziazione). Chi ha fatto i conti in tasca agli azionisti della prima ora il moltiplicatore è stato 12 (sic!). Il deal maker Sergio Marchionne, è stato per loro un “distributore di ricchezza”. Certo, per gli stakeholder non è andata così, e non poteva essere diversamente.

Peugeot ha comprato un’azienda americana (FCA) perché era interessata al mercato americano e ai brand Jeep-RAM (ricordo che una Banca d’Affari aveva rilevato che a fronte di una capitalizzazione di borsa di 20 mld $, Jeep/Ram da soli ne valevano 23, ergo gli altri marchi, Fiat, Alfa, Maserati, etc. erano a patrimonio negativo). Il Quartier generale di Peugeot-FCA sarà a Parigi, lì siederà Carlos Tavares, la sede fiscale sarà ad Amsterdam (un dubbio romantico: il mitico tavolo dell’Avvocato di Corso Marconi dove sedersi di fronte a lui era un privilegio, dove finirà?). La governance ora è assolutamente chiara. Il management ex FCA o riconoscerà la leadership di Tavares o uscirà.

Presto Tavares si dedicherà al grande processo di ristrutturazione prodotti-mercati-stabilimenti. Immagino “sfiorerà” appena l’America (specie se resta l’occhiuto Donald Trump), si concentrerà sul resto del mondo, in particolare in Europa, per ottenere le efficienze previste: 3,7 miliardi di euro. Un target altissimo, visto che stiamo parlando di due realtà già oggi ben gestite, quindi altro che grasso che cola, qua, per raggiungerli, si dovrà operare sulla carne viva.

Come ovvio, avendo pagato il “premio”, verranno privilegiati piattaforme e stabilimenti francesi (l’occhiuto Emmanuel Macron pure azionista, sarà lì a controllare, e i gilet gialli controlleranno lui) e dovranno essere rispettati gli impegni presi con Angela Merkel e IG Metall: nessun licenziamento in Opel fino al 2023 (sic!). Purtroppo, la ristrutturazione dovrà essere “doppia”, perché: a) nei modelli di auto medio piccole l’attuale capacità produttiva Peugeot-Opel-Fiat è in forte eccesso; b) nel prossimo decennio questa tipologia di auto, in parte, non verrà più “venduta” ma “affittata/condivisa”, quindi si attendono riduzioni di volumi, e conseguenti abbandoni di siti produttivi inutili.

Il giochino comunicazionale sarà il solito: si parte con dichiarazioni roboanti: “nessuna chiusura”, mentendo sapendo di mentire, per poi seguire la nota strategia del carciofo. Ci vengano solo evitate le sceneggiate stile Whirpool. La modalità di selezione delle chiusure riguarderà pure i siti dedicati ai “diesel”. Per la scelta “elettrica” si procederà alla sua progressiva “eutanasia” (rapporto occupazionale motore elettrico/scoppio 1:4). Peugeot e Fiat sono leader europei del “diesel”, per cui lo scenario occupazionale “automotive” per l’Italia si farà ancor più cupo. Per rispetto verso le categorie sociali che pagheranno a caro prezzo la fattura di sciagurate passate decisioni di politica industriale, i “colpevoli nostrani” almeno tacciano.

Fiat era tecnicamente morta nel 2009 per, ripeto, mancanza di intelligenza sociale delle leadership manageriali e della politica. Sergio Marchionne ha fatto uno straordinario lavoro di valorizzazione e di successiva “donazione degli organi” agli azionisti, ora la cessione a Peugeot certifica la chiusura definitiva del dossier Fiat Auto. Una prece, mia cara Fiat. Ti ho voluto bene.


CASO ILVA. INNESCO A UNA TEMPESTA PERFETTA?

Da giorni rimugino sul caso ILVA. E’ un aspetto economico politico molto rilevante per il Paese, che non possiamo lasciare nelle mani di dilettanti allo sbaraglio come quelli del governo Conte Bis. D’altra parte, è un governo che pur essendo assolutamente legittimo, è nato con un uso pesante del forcipe, non adottando tutte le valutazioni-cautele dei protocolli, in primis riproponendo lo stesso primario-barone, già imbarazzante nella prima versione, figuriamoci nella seconda. D’altra parte, lo ha scelto la corrente colto-salottiera del nostro Establishment, e ha pure avuto la bollinatura dei loro corrispondenti ZTL europei. Un’oscenità politico-culturale, oltretutto dichiarata: qualsiasi soluzione pur di non andare alle urne e garantirsi di nominare un nuovo Presidente della Repubblica di sistema.
Capite il degrado politico al quale sono scesi? Lo dichiarano così, in modo esplicito (quindi volgare) come fosse un tweet, un post, trasferendo nei cittadini (non fessi) un’arroganza senza limiti. Quando un Establishment che si dichiara liberale e democratico, e giudica “fascisti di ritorno” una parte, rilevante, dei loro concittadini, e teme le elezioni, significa che non possa più dirsi classe dirigente, figuriamoci liberale e democratica.

In Parlamento, un mese fa il M5S di Luigi Di Maio, il Pd di Nicola Zingaretti, Italia Viva del redivivo Matteo Renzi, la Sinistra rediviva di non so chi, e sotto la regia di Giuseppe Conte hanno votato compatti per togliere la cosiddetta immunità al management di ILVA. Lo hanno fatto conoscendo perfettamente la posizione, ufficializzata tre mesi prima, di Acelor-Mittal che prevedeva l’immediato recesso nel caso fosse stata tolta.
Oltretutto, non era uno sconcio privilegio assegnato a una “losca “multinazionale, no, era la stessa immunità che avevano preteso, giustamente, i Commissari governativi per gestire la società nel periodo intermedio. Ebbene leadership sciagurate come quelle prima citate hanno sfidato (sic!) Acelor Mittal. Questi hanno accettato la sfida, sono venuti di persona padre e figlio Mittal a comunicare “riprendetevi il pupo, a meno che ..”. Non ci posso credere.

Avendo un Establishment di inetti, il discorso verte non sull’execution ma, al solito, sugli “scenari”, sui “retroscena” (sanno parlare solo di quelli). Eccone uno: “I franco tedeschi volevano andarsene perché avevano sbagliato il piano industriale e cercavano il casus belli”, questo il racconto dell’Establishment e della stampa di regime. Può essere anche vero ma resta un’idiozia allo stato puro se chi sostiene questa teoria complottista è lo stesso che gli ha fornito su un piatto d’argento la scusa. Hanno perso il lume dell’intelletto. Non c’è altra spiegazione.

Secondo me il problema non è più del Governo, che sappiamo essere costituito da inetti, partiti dilettanti sono diventati professionisti in corso d’opera, ma dell’Establishment che lo ha proposto e sostenuto a livello italiano ed europeo. Questi dovrebbero chiedere un intervento del Presidente Mattarella (sia chiaro in termini di moral suasion) per nominare uno Zar (modello Usa, Barack Obama lo fece nel caso Chrysler Fiat che portò alla brutale espulsione dei tedeschi di Daimler e alla nazionalizzazione e immediata privatizzazione della società) al quale affidare i pieni poteri per risolvere il problema, punto. Oltretutto l’uomo giusto l’hanno, è dell’Establishment, credo pure pariolino, ma è “perbene”, “capace”, “operativo” da subito, essendo l’italiano che ne sa più di tutti su questa vicenda. E’ Carlo Calenda. In questi anni è pure cresciuto, scoprendo in se un’intelligenza sociale finora nascosta, ha capito che nell’epoca dell’osceno Ceo capitalism è il lavoro l’asset più importante, intorno al quale ruota tutto.

Lo confesso, sono terrorizzato che nel 2020 esploda una tempesta perfetta innescata dagli esuberi ILVA, Alitalia, Peugeot-FCA e relativi fornitori.

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