Supplemento


Spremuta di Camei

UNA MOSSA ROMANTICA QUELLA DI CARLO DE BENEDETTI

I giornali raccontano lo scontro fra Carlo De Benedetti e i figli Rodolfo, Marco, Edoardo (questi è medico in un ospedale svizzero, dove vive) come una saga familiare condizionata dai quattrini, con reciproci “colpi sotto cintura”. Non credo a questa versione. Conosco Carlo De Benedetti dalla metà degli Anni Settanta, conosco l’affetto che lega il padre ai figli e viceversa. Con Carlo ho lavorato insieme nei mitici 100 giorni in Fiat, lo considero un grande manager e un grandissimo deal maker (sull’uomo non mi esprimo: non lo conosco, non avendolo mai frequentato). Non sempre i ruoli di manager e deal maker sono presenti a livelli altissimi nella stessa persona.

Insieme a suo padre Rodolfo e al fratello Franco hanno ampliato l’azienda di famiglia (Flexider) contornandola, per acquisizioni successive, di altre aziende di media stazza, fino a farne una mini holding che poi cedettero a Fiat. Qua i loro destini personali si separarono. Lo storia manageriale dell’ingegner Carlo, come lo chiamavano i suoi più stretti collaboratori (a Torino i Re si chiamavano per nome) è fatta di grandissimi successi e di alcune drammatiche, costose, scivolate. Non escludo che nell’editoria, grande amore della sua vita, il rigore manageriale in questi ultimi tempi possa essere stato attutito da una componente romantica, una specie di “Io non ci sto!”.

A inizio anno, prima di lanciare il Protocollo Zafferano feci, a titolo personale, uno studio approfondito, il secondo dopo uno del 2016, sulla crisi dei giornali. Mi ero innamorato di questa attività e la vedevo progressivamente degradare. Osservavo come il management del settore facesse l’opposto di quello che si doveva fare, ma esattamente quello che facevano tutti: un ottuso taglio dei costi senza uno straccio di respiro strategico. Cioè licenziare le persone partendo dal basso, anziché dall’alto, abbattere i costi in modo lineare anziché verticale.

Un risanatore non è un ottuso tagliatore di teste e di costi ma uno che cambia il paradigma strategico dell’azienda e i comportamenti organizzativi dei singoli. Tutti invece, al cadere dei volumi, quindi dei ricavi, abbattevano i costi in modo lineare, o facevano operazioni di outsourcing, giochetti di fusioni, infine continui cambi di direttori e di CEO alla ricerca di un Mandrake che non esisteva. Risultati? Nulli, anzi più facevi tagli di persone e di costi più questi erano insufficienti. Poi passavi all’autoriduzione dei compensi (sic!), al part time, al restyling del giornale, infine l’ultima spiaggia, il Paywall. Intanto, la perdita dei lettori era costante e progressiva, in modo diverso valeva per tutti i 5-6 big del settore.

Nel 2016, visto che non me la chiedeva nessuno, pubblicai un’autointervista. Usai una metafora ispirata alla strategia di rinnovamento in corso della flotta militare Usa. “De Benedetti ha abbandonato la vecchia corazzata Repubblica, creando una portaerei di ultima generazione fatta di Repubblica-Stampa-Secolo. Urbano Cairo ha scelto di non seguirlo, si sarà detto: meglio una nave potente ma agile come un incrociatore di classe Zumwalt. Per gli altri vecchi incrociatori il problema era galleggiare alla meno peggio”.

Mi chiedevo allora: c’è lo spazio per un sommergibile di ultima generazione (classe Virginia). Chi avrà il coraggio di puntarci e completare una vera “bipolarità” di quest’epoca strategicamente bastarda? Di certo un mercato potenziale, grezzo ma numeroso, c’è: sommate indecisi, non votanti, parti dei cinquestelle, della Lega e troverete un popolo che ha capito la strategia dell’Establishment: impoverire la classe media, sedare quella povera, resettare i “vecchi”. Un popolo che non ci sta (lettori persi per i big). Quindi non una grande nave di superfice, ma un sommergibile “corsaro”. Qua bastano un comandante con la benda sull’occhio sinistro, una sporca dozzina mixata fra vecchi giornalisti anarchici (pagati poco o nulla) e giovani virgulti (pagati in visibilità, quindi più del mercato).

In questo senso la mossa di Carlo De Benedetti è romantica, può darsi che finisca in una bolla di sapone, ma una sua ratio sentimentale ce l’ha, eccome. Perché il giornale è un essere vivente, è lo specchio dei lettori, se lo riempi di fake truth diventa un pezzo di carta da avvolgerci i carciofi. Suggerirei agli altri editori di non sottovalutare questa mossa. Lui ha capito che con le modalità classiche, nessuno è capace di adeguare il BEP (punto di pareggio) alla inarrestabile caduta dei lettori, i quali lettori, tutti gravitanti nel mondo dell’establishment allargato, presto si chiederanno se avranno ancora un futuro come maggiordomi di una Corte che comincia a sbrindellarsi. Lo storia insegna che quando si frantuma lo zoccolo duro della Corte, cadono i Re.

A sei mesi dalla sua enunciazione come caso di scuola (non applicabile tal quale nell’operatività) il Protocollo Zafferano è lì, a disposizione di chi vuole studiarlo.


LA GUERRA INFINITA FRA ERDOGAN E L’EUROPA

Per un giornalista, oggi trattare a pesci in faccia (in un articolo, of course) Recep Erdogan non comporta nessun rischio, anzi. Serenamente lo faccio anch’io, associandomi a tutti i miei colleghi. Il direttore ti mette in bella vista, l’editore sorride, sornione, le tv ti offrono ospitate. Partecipi a cortei sotto l’ambasciata turca, con tutto l’armamentario rivoluzionario: foto, filmati, slogan, cartelli, strazianti casi umani. Eppure senti che c’è qualcosa di strano, l’atmosfera è pesante, imbarazzata, bene parlarne, ma con juicio, se volete scriverne male, fatelo, però ….

Chi sta con Erdogan? Nessuno. I “sinistri” lo odiano perché loro sono schierati con i Curdi (sunniti, socialisti), i “destri” lo odiano perché sono schierati con il suo nemico mortale Bashar al Assad (sciita alawita), protetto da Vladimir Putin, l’Establishment europeo urla e strepita (Emmanuel Macron in testa) ma da anni lo paga per fare il lavoro sporco (bloccare i migranti) per conto di Germania e satelliti. Perché? Perché Erdogan è il solo attrezzato, le sue forze armate sono le uniche dei 28 capaci di combattere sul campo. E tutti lo riforniscono di armi, tanto, dicono, le comprerebbe dalla Russia, e noi perderemmo fatturato. Una nota tecnica: se bloccassero le forniture da oggi non succederebbe nulla, le armi o sono state già consegnate o sono nel “tubo” e non si può fare più niente.

E allora perché non espellerlo? Perché gli eserciti Nato non vanno a presidiare quella striscia di Siria dove ci sono i curdi siriani che tanto ci hanno aiutato con l’Isis? A parte la Turchia nella Nato ci sono i 25 Paesi più ricchi del mondo, sia per reddito pro-capite, sia per tecnologie. Il dilemma dell’Europa è sempre lo stesso, bravi nello stabilire i buoni e i cattivi, ma incapaci di rispondere alla domanda del vecchio Lenin: “Che fare?”. L’Europa ha capacità zero di execution guerresca, quindi mai saremo una potenza politica, sempre e solo uno straordinario mercato (e pure una insuperabile Disneyland per turisti).

Torniamo a quei giorni del 2015 che gli storici chiameranno “I sedici giorni del terrore”. Iniziano il 13 novembre con i 130 morti del Bataclan (targati Isis, sunniti), il 15 c’è il vertice del G 20 in Turchia, il 20 a Bruxelles si riuniscono tutti i ministri di Interno e Giustizia, il 24 Erdogan abbatte il jet russo, il 28 viene assassinato in Turchia Tahir Elci un avvocato curdo del PKK, il 28 a Bruxelles si apre il vertice dei Capi di Stato. Questi ci arrivano affranti, sono leader sotto choc, impauriti, disperati (dicono: “la Francia non ha scudi, l’Europa non è protetta”). Stanno per collassare, intellettualmente.

Cosa decidono? Di mettere in sicurezza il confine turco siriano. Come? Pagando. Leggetevi le note dell’ambasciatore italiano Stefano Sannino, nostro rappresentante a tutti i tavoli, riprese da Mario Sechi sul Foglio di allora. Lì si capisce tutto: Erdogan accetta l’offerta di prendersi, subito e cash, 3 miliardi € e le “chiavi” del confine dell’Europa. Il flusso dei migranti che minacciava la Germania viene bloccato grazie all’outsourcing oneroso affidato a un Sultano ottomano in abiti europei. Il contratto è tuttora in vigore, anche se Erdogan chiede sempre più quattrini, perché ha aumentato unilateralmente il premio. E come se non bastasse l’umiliazione: ora tocca all’Italia, su ordine della Nato, per rotazione deve schierare 130 soldati e una batteria di missili per proteggere lo spazio aereo turco (sic!) da attacchi siriani, mentre, in contemporanea, Erdogan bombarda i curdi nostri amici. (Sembra una fake news).

Gli Stati Uniti si sono sfilati. Prima Barack Obama (ci definì “scrocconi” sulla vicenda curdi), poi Donald Trump, ora persino Bernie Sanders. Da anni invitano l’Europa ad assumere il ruolo che le spetta in Medio Oriente e di aumentare il contributo in quattrini (investimenti e uomini) nella Nato. Da anni Germania e Francia in testa, da buoni bottegai, non lo fanno. Gli Usa ci hanno spiegato che loro, da primo acquirente di petrolio (quindi soggetti alle paturnie degli sceicchi) ora non solo sono autosufficienti ma sono il primo venditore netto al mondo di idrocarburi. Quindi per loro il Medio Oriente (e i suoi despoti di bianco vestiti) non è più un’area strategica, punto. Lo è per noi ma ormai siamo diventati dei bellimbusti, che pensano e parlano solo di quattrini, di spread, di debiti.

Che fare? Ora tocca all’Europa passare all’execution. Due opzioni secche: 1. Confermare a Erdogan l’outsourcing dei confini e continuare a vivere da bellimbusti chiacchieroni, pagando tangenti; 2. Rompere il contratto con Erdogan, blindare direttamente i confini terrestri e marittimi dell’Europa, stile Australia, con nostre truppe, e tornare soldati. Tertium non datur.

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Zafferano

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In questo numero hanno scritto:

Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Roberto Zangrandi (Bruxelles): lobbista