Spesso in ciascuno di noi si confondono e convivono tipi di etica diversi: moralisti e rigidi su alcuni principi come il più duro dei calvinisti o dei pietisti à la Kant; postmoderni, nietzscheani e foucaultiani nell’affermazione di desideri e volontà di cambiamento; aristotelico-tomisti nei rapporti familiari o amicali. Ovviamente i cocktail possono essere diversi e variare d’intensità, ma tale e tanta è la nostra confusione.
MacIntyre prova a mettere ordine tra le varie tradizioni, cercando di farle dialogare dialetticamente per vederne infine prevalere una – quella aristotelico-tomista – che egli considera migliore, e normalmente più vissuta, anche per realizzare gli obiettivi delle altre. Così facendo, cerca di osservare comportamenti e istituzioni della nostra società come luogo e frutto incarnato di queste tradizioni di pensiero e di etica, proponendone un miglioramento.
Riesce nel suo tentativo? Di certo, riesce a far vedere quanto questa mescolanza di tradizioni abbia permesso la nascita di un mondo che in apparenza esalta l’individuo per farlo invece prigioniero di schemi e sistemi conformisti e alienanti, che MacIntyre chiama collettivamente corporate modernity (la modernità delle multinazionali che segue a quella statalista), che rendono gli esseri umani più soli e infelici.
Proprio su felicità e infelicità scrive una delle pagine più belle del libro, dove fa notare quanto problematiche e confuse siano le risposte alla domanda: sei felice? Per i moderni la felicità è infatti uno stato mentale nel quale cercare di rimanere il più a lungo possibile. Per la tradizione classica e cristiana essa è invece un insieme di azioni e attività che mi portano verso il bene. Così, mentre per i primi si tratta di prendere decisioni che mi facciano restare in uno stato di benessere mentale, che sappiamo già instabile, per i secondi si tratta di un cammino di crescita di certe attività che sappiamo non essere mai perfette. Così, per i moderni essere infelici è un fallimento, mentre per i cristiani un realistico riconoscimento: il bene infatti si raggiunge solo dopo la morte e tutte le altre condizioni sono di maggiore o minore vicinanza al bene e quindi di felicità e infelicità sempre relative.
Il contrasto è ben segnalato da Macintyre in una risposta del generale De Gaulle, che alla domanda “ma Lei è felice’” posta da un incauto cronista, rispondeva: “Non sono stupido”. Il cronista voleva sapere dello stato mentale, De Gaulle rispondeva con l’antico realismo aristotelico-tomista.
Come questa sulla felicità, le osservazioni di MacIntyre sono spesso pungenti e rilevanti, mentre le soluzioni appaiono più deboli. Da un lato vorrebbe risolvere il conflitto di tradizioni con una dialettica teorica tra tradizioni diverse, dall’altro con una rinascita pratica di comunità. Così, come dicono nella bella introduzione i curatori Sante Maletta, Dario Mazzola e Damiano Simoncelli, viene accusato di essere un reazionario critico della modernità da parte dei progressisti e uno storicista relativista da parte dei conservatori. Forse hanno entrambi ragione ed entrambi torto. MacIntyre vorrebbe un’unità profonda e perfetta tra il piano teorico e quello pratico, che prova a descrivere nelle vite esemplari di alcuni pensatori, tra cui Vassilij Grossman, ma forse non ha gli strumenti necessari per produrla. Il tentativo, però, è coraggioso e vale di certo la lettura.