... un buon numero di canzonette italiane anni ’60 creando gli arrangiamenti che forse spiegano il loro successo (“In ginocchio da te” e “Se telefonando” su tutte), ha composto musica colta, sperimentale e impegnata per palati ultra raffinati. Oltre all’informazione, però, colpisce l’idea di fondo, che vede Morricone rendersi conto progressivamente che la sua musica per film non era un tradimento dell’insegnamento della composizione ricevuto dal suo maestro al conservatorio, ma un uso di quegli insegnamenti dentro una delle forme culturali più rilevanti del Novecento.
Tuttavia, anche dal film emerge una consapevolezza sofferta di tutto ciò e, forse, non completa. A un certo punto si vede il maestro sostenere ancora in vecchiaia che le combinazioni di note e accordi sono esaurite, così come forse aveva imparato nei suoi studi avanguardistici negli anni ’60. Eppure, – dice anche uno dei compositori intervistati – più sosteneva questo più le sue melodie, sottoposte all’insindacabile giudizio del gusto di sua moglie Maria, diventavano popolari, cantabili, amabili. Alla fine, sono loro a rimanere più del film stesso, spiegando così che la preparazione tecnica sopraffina, la dottrina teorica, la ricerca sperimentale, quando sono vere e sentite non sono l’opposto del gusto popolare.
C’è un grande insegnamento, che forse sfugge allo stesso Morricone, che resta un po’ diviso fino in fondo tra l’anima colta e quella popolare, tra lo studio teorico e l’uso pratico, tra la sorgente mentale della musica e quella materiale. La sua opera dimostra che queste separazioni non ci sono: la vera opera colta è popolare, la teoria è pratica, la sorgente spirituale e materiale accadono all’unisono. Gli studi contemporanei di matematica e di filosofia fanno vedere che tale unità si realizza proprio nello scrivere le note sulla carta, nel realizzare che quel suono della scaletta di legno sentito per caso è un’ottima base per una musica, nel restare per ore a un piano a dialogare con l’amico Sergio Leone. In realtà, quando ragioniamo creativamente e sinteticamente, lo facciamo sempre con delle azioni, con dei gesti, ben rappresentati da Tornatore nell’immagine del maestro che dirige da solo nella sua stanza piena di manoscritti. Certo, poi esiste la capacità analitica di dividere teoria e pratica, dottrina e uso, spirituale e materiale. Ma è un processo tanto importante quanto successivo.
Così, e forse è questo il momento più debole del film, è una filosofia sorpassata e flebile che fa dire a Morricone che non sappiamo se c’è un fine della ricerca, come se la ricerca stessa fosse un fine. Se davvero così fosse, non cercheremmo. Come ha ben espresso uno dei più bravi filosofi italiani, Diego Marconi, in un libretto intitolato Per la verità: “Dalle chiavi di casa alla terapia efficace del carcinoma ovarico, si cerca per trovare. Se davvero si pensasse che non c’è nulla da trovare, o che è impossibile trovarlo, si smetterebbe di cercare (e infatti non si cerca più di quadrare il cerchio o di realizzare il moto perpetuo). La nobilitazione della ricerca rispetto al suo eventuale risultato è una razionalizzazione di quella che si considera (a torto o a ragione: secondo me, a torto) l’estrema povertà dei risultati conseguiti, ad esempio, in filosofia [o in musica!, N.d.A.] rispetto agli sforzi profusi: un tentativo di salvare il salvabile, pregiando il viaggio più della sua meta, a cui non si riesce ad arrivare e che forse non esiste. Ma è una razionalizzazione controproducente, perché fa di un’impresa forse vana un’impresa sicuramente sciocca”.