Nel 1637 Descartes, nel Discorso sul Metodo, intuisce un futuro come quello di oggi ed ammonisce: “Se mai ci sarà una macchina che assomiglia al nostro corpo ed imita le nostre azioni per quanto moralmente possibile, avremmo sempre due modi per sapere che non sono veramente umani. Il primo è che non riuscirebbero ad usare il linguaggio, o altri segnali, per comporre come facciamo noi, e per esprimere i nostri pensieri ad altri. ... Ed il secondo è che seppure la macchina riuscisse a fare qualcosa meglio di noi, in ogni caso fallirebbe in tutte le altre”. Quattrocento anni dopo, le sue considerazioni sono ancora valide.
I computer di oggi processano una quantità di informazioni incredibile se paragonata a quanto possibile pochi anni fa, ma sempre minima se pensiamo a come siam fatti e funzionamo. Al concepimento, il DNA con i suoi 23 cromosomi e tre miliardi di coppie di molecole (di adenina, citosina, guanina e timina) ha le linee guida per costruire ogni parte del nostro corpo e metterla assieme nel nascituro. Pensiamo al progetto di un architetto: i disegni e le specifiche di costruzione sono nel DNA. In pratica il genoma umano ha 750 megabyte di informazioni, tanto quanto una vecchia chiavetta USB.
Ma da quel progetto crescono organi, muscoli, e tutti i sistemi del nostro corpo, fino al cervello, che con i suoi 85-100 miliardi di neuroni ci da cento terabyte di memoria, ben di più dei computer normalmente in commercio. Possiamo quindi pensare al nostro cervello come al capo cantiere, all’umarell che prende in mano il progetto del genoma e ci fa crescere nel corpo e nello spirito, costruendo memorie e ragionamenti ad ogni passo della nostra vita. Tutto questo è basato sulla nostra capacità di imparare, perché con la dovuta eccezione dei Competenti, nessuno nasce “imparato”.
Ho già scritto in passato del Namatode, il vermicello lungo un millimetro con meno di mille cellule e 300 neuroni. Anche quest’essere semplicissimo impara, perché riesce ad abituarsi al contesto ed associare informazioni diverse, e cosi facendo si adatta alle condizioni chimiche, di densità e temperatura in cui si trova. Un qualcosa che i robot ancora non riescono a fare, e che al tempo stesso è infinitamente più semplice della capacità dell’uomo non solo di adattarsi al contesto, ma di adattare l’ambiente a se stesso.
Se prendiamo ad esempio il Deep Learning, tutto quello che riesce a fare è la prima fase del nostro riconoscimento visivo, quando in pochi millisecondi il nostro cervello capisce cosa sta guardando. E mentre nessuno di noi ha dubbi a capire che tutte queste lettere sotto sono una A, il robot va in panico.
Per chi volesse approfondire: https://aip.scitation.org/doi/full/10.1063/1.5086873