IL Digitale


La prima schiavetta digitale

La scorsa settimana è uscita la notizia che attendevo da tempo: finalmente una lavoratrice ha creato a sue spese l’avatar, a propria immagine e somiglianza, e l’ha mandata a lavorare al suo posto. Vero che la lavoratrice è una modella, che l’avatar è la sua riproduzione digitale perfetta, ed è quindi comprensibile che le agenzie di moda paghino per un qualcosa di indistinguibile dall’immagine della ragazza in carne ed ossa. 

Ci sono alcuni mestieri basati esclusivamente sulla rappresentazione digitale: influencer, attori, cantanti, presentatori, esperti meteo, analisti finanziari, insegnanti da remoto, e qualche decina di altri lavori. Come si evolverà la loro professione?

Un avatar oggi non può fare nulla di fisico, da un lato perché i robot antropomorfi non hanno certo la nostra immagine e somiglianza, dall’altro perché costano un patrimonio. Ancora per qualche anno, se sei artigiano, magazziniere, ristoratore, operaio, medico o infermiere, ovvero fai uno di quei mestieri dove serve il contatto fisico con il prodotto, e magari anche con il cliente, sei quasi al sicuro: l’unico problema sono gli immigrati che lavorano per uno stipendio inferiore. E ti rubano il lavoro.

In questo campo aspetto fiducioso l’opinione degli economisti, che dovranno riflettere su domanda, offerta, e specialmente prezzi ed impatti sulla nostra società. Sono pochissime le modelle, e se anche raddoppiano o triplicano con i loro avatar, che male ci sarà? Forse sarà più difficile, per un’adolescente speranzosa, entrare in quel campo visto che gli avatar hanno il brutto vizio di non invecchiare. Oggi solo i vecchi ricordano le modelle passate, appunto perché uscite da tempo dalla ribalta e sostituite da carne fresca. Ma oggi la modella londinese che ha mandato il suo avatar a far servizi fotografici, ha anche ipotecato qualche anno in più delle sue colleghe precedenti.

E cosa dire degli attori? Tom Cruise già sembra non invecchiare di suo, novello Dorian Gray hollywoodiano, se poi aggiunge l’avatar che continua a far film per i prossimi vent’anni, chi ce lo toglie più dallo schermo? La noia. Chissà se mio figlio, attore, leggerà questo pezzo: devo pensare ad una nota d’ottimismo, ma sicuramente è meglio impari l’uso degli strumenti e segua l’evoluzione tecnologica.

E cosa dire di avvocati, giornalisti, professori? Loro non sono pochi come modelle ed attori, son tantissimi, come le cavallette. Anche loro potrebbero giovare dall’avere uno schiavetto digitale che lavora ben oltre l’età pensionabile mentre loro sono in spiaggia con champagne e canna da pesca, o forse già al cimitero, se l’avatar lo possiamo passare agli eredi. Che ne dite?

Da un lato abbiamo professioni dove l’avatar può facilmente sostituirsi al lavoratore, mantenendolo giovane a lungo. Mentre per alcuni casi il numero di persone impattate è minimo, nella maggior parte parliamo di milioni di lavoratori in tutto il mondo. D’altro canto, abbiamo mestieri dov’è richiesto un robot vero, in metallo e rotelle, che ora e per alcuni anni costerà troppo perché convenga sostituirlo ad una persona in carne ed ossa. Possiamo immaginare che lavori che fino a ieri erano prestigiosi e ben pagati diventeranno commodity? Ed al contrario altre occupazioni, per cui basta la terza media o scuola superiore, che fino a ieri erano sottostimati e domani cresceranno? Si, possiamo farlo, è logico pensare a due gruppi di persone ben pagate: quelli che fanno lavori fisici con molte attività diverse, come l’artigiano, e quelli super-specializzati in campi di frontiera, come ricercatori e premi Nobel. E gli altri?

Inguaribile ottimista, sono contento di questo sviluppo, perché credo che il tema del controllo dei mezzi di produzione, specie dei lavoratori, sia fondamentale. Cos’è meglio: un’azienda piena di avatar e robot propri, o una che paga lo stipendio agli avatar dei suoi lavoratori umani? Il primo caso è quello caro a Bill Gates: ammette che la forza lavoro sarebbe decimata o sottopagata, ma tassando i robot aziendali come se fossero persone, creerebbe un reddito di cittadinanza che ci tiene vivi e dispendiosi sul divano davanti a Netflix. Il secondo caso è il mio, quindi assolutamente irrilevante, che preferisco perché voglio essere libero, non costretto dalle catene di un debito di stato a guardare lo schermo di cittadinanza.

Non sono certo candidabile per fare il modello o l’attore, ma potessi comprarmi uno, due, tre avatar da mandare a progettare, dirigere, insegnare al posto mio, responsabile di quello che fanno per me, lo farei volentieri. Voi?


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In questo numero hanno scritto:

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Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
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Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro