Un passo indietro. I partecipanti dei media a questa kermesse lo chiamano “giornalismo d’inchiesta”. E’ un errore. Questa definizione riguarda un tempo lontano, ormai trapassato. Nel Novecento c’era bisogno di un termometro culturale che misurasse la febbre del paese Italia (che ne aveva tanto bisogno, stante la sua impetuosa e disordinata crescita). Nacque un giornalismo che non si fermava agli imbarazzanti comunicati stampa o alle scarne dichiarazioni ufficiali, ma scavava in profondità, affinché al lettore-cittadino la notizia arrivasse nella sua interezza. In quello schema operativo il giornalista aveva una rete di “fonti” per raccogliere elementi inconfutabili su un tema di rilevanza pubblica. Le “fonti” erano in realtà gente comune, portinaie (sono nato e vissuto in una portineria-fonte), piccoli funzionari, pingui marescialli, preti operai. La loro contropartita non andava oltre “cornetto e cappuccio” al bar dell’angolo.
Con il linguaggio di oggi si direbbe un giornalismo dove non erano presenti né le fake news, né le ben più oscene fake truth. Quel giornalismo oggi non esiste più, la quasi totalità dei media pratica un giornalismo fake truth, con un mix di graduazioni di verità diverse. Molti quotidiani si dichiarano indipendenti, in realtà sono ultra politicizzati, seguaci di ideologie ben precise.
Tralasciando i casi celebri, spesso incautamente richiamati, del Watergate (la fonte-gola profonda era un losco mammasantissima del Deep State, il numero due del FBI Mark Felt) e di Wikileaks (il caso Julian Assange se lo si approfondisce è dinamite!), mi soffermerei sul caso del Daily Telegraph. Come racconta Eric Pfanner, il suo editore anziché vendere o regalare DVD o CD, come usava allora, sperando di incrementare le vendite, si inventò un’approfondita indagine sulle spese allegre dei parlamentari inglesi: il giornale di colpo aumentò le vendite del 10%. Questo dovrebbe essere lo scopo del “ritorno” sull’investimento, da parte dell’editore, sull’uso del giornalismo d’inchiesta. In sede di assunzione, occorre però spiegare loro che il Pulitzer devono guadagnarselo scarpinando, non commissionando alcunché ad altri (specie se poteri dello stato) e senza farsi “buca delle lettere” di altri con interessi altri. Per chi volesse approfondire suggerisco lo studio targato Università degli Studi di Trieste di Monica Ricatti.
Nel caso attuale del dossieraggio, non sappiamo ancora di cosa si tratti, auguriamoci solo di non essere in presenza di un sistema deviato fognario-cartaceo. Certo tutto cambierebbe se i dati fossero stati “commissionati” dai giornalisti, quindi dagli editori, atto chiaramente da ascrivere al non rispetto della legge.
Inutile girarci intorno, il ruolo chiave l’abbiamo noi editori. Come noto ci sono editori puri (sono pochi) poi ci sono altri che campano e crescono con altri business, quasi sempre per loro prioritari. Importante pure il ruolo degli investitori pubblicitari come condizionatori dell’informazione. Non c’è dubbio che in questo scenario siano presenti vari conflitti di interessi. Altrimenti non si spiegherebbero giornali che operano con un numero di lettori al di sotto del loro break even point (non più business ma investimento?).
C’è però un modo definitivo per allontanare ogni sospetto sul giornalismo d’inchiesta che a volte tanti danni hanno fatto in passato su persone perbene riconosciute innocenti solo molti anni dopo. Eccolo: ogni editore renda note le sue “regole di ingaggio” verso questa tipologia di giornalismo. Sarebbe un atto di serietà professionale ed etico di cui il paese ha tanto bisogno.