Infatti quando comparirà su Zafferano le elezioni europee saranno passate e saranno già state più o meno soppesate. Voglio invece pescare dal notes la torva calma di Bruxelles nella serata del venerdì 24 e nel piovoso sabato 25 maggio.
Prima del weekend ero a Londra e ho visto Theresa May dimettersi in diretta tv in un grattacielo con sguardo su Buckingham Palace e il Mall. Qui, sul viale pavesato da enormi Union Jacks, si facevano ancora prove per la prima rata di Trooping the Colour per il giorno successivo, 25. Nel rito, la prima parata (quest’anno del primo battaglione dei Grenadier Guards), è diretta da un militare di carriera: stavolta un veterano degli orribili anni dell’Irlanda del Nord e della guerra afgana. A una settimana esatta segue Randy Andy, Duca di York, fratello cadetto di Carlo del Galles e tollerante ex-marito di Sarah Ferguson. L’otto giugno, un giorno dopo la cessazione dell’ufficio di Theresa May e festa pubblica per il compleanno di Elisabetta II, sarà lei stessa a passare in rassegna, in carrozza e non più a cavallo, le truppe.
May si è dimessa con un senso dei tempi determinato dall’inevitabilità della politica, ma con una attenzione particolare alle concomitanze emotive: fuori da Whitehall, al ministero della difesa, ai piedi del Cenotafio e del monumento alle donne della seconda guerra mondiale, dozzine di corone di papaveri rossi, simbolo della memoria per i caduti in guerra, rendevano con le dediche tributo anche al Memorial Day americano (27 maggio) – la stessa rispettosa devozione riservata ai caduti inglesi ogni 11 novembre, come a fare eco all’immediatamente twittato apprezzamento di Donald Trump per la ormai ex premier. May si dimette con la dichiarazione, nel pianto dirotto, “sicura di avere servito il paese che amo”.
Sul Mall le truppe sfileranno tre volte con la dirompenza delle fanfare e dei tamburi maggiori in groppa ai 200 bai e sauri da parata. La regina saluterà la folla e i militari, 41 salve di cannone dal parco di San Giacomo la saluteranno a loro volta e gli aerei da caccia in formazione chiuderanno il 93° real genetliaco portando, in un tripudio di britannicità, la ormai inevitabilità di un’Europa senza UK.
Ecco quindi che a una cena su una delle più esclusive avenue della città, con le urne in via di apertura la mattina dopo, si parla di Europa, e dei suoi “padri”, in un percorso narrativo che va a scovare personaggi minori, ma che hanno preparato leggi, proposte che hanno orientato la legislazione futura e ci hanno condotti fin qui, c’è chi accampa cifre. Si sostiene che la qualità della vita di questa piccola Unione (un nano in termini di estensione ed abitanti rispetto a Russia, India, Cina, Stati Uniti, Canada e Brasile) sia un miracolo di per sé; e che in questa landa l’Italia abbia il suo peso, e che il disordine socio-economico-politico che ci trasciniamo sia compensato dalla realtà delle cifre che ci perimetrano come uno dei paesi traino – e non trainati – dell’Unione. E poi c’è chi, già, con fare saputo, ridisegna organigrammi di intere direzioni generali dopo nuovi poteri (forse), l’inevitabile stop alle carriere di molti funzionari inglesi e le inevitabili epurazioni morbide che si susseguiranno: c’est la vie, so ist das Leben, così è la vita, that’s life.
Passano cose note e valutazioni già sentite. Ma c’è qualcosa che si fa strada nel miscuglio di lingue della vecchia Europa che si parla in queste occasioni, dove espressioni della diplomazia francese incontrano definizioni universali tedesche e qualche citazione latina o italiana.
Quello a cui assisteremo, indipendentemente dalla conferma o meno delle ultimissime previsioni sarà un rinsaldamento dei bulloni dei vertici della tecnopoliticrazia (orribile neologismo, lo ammetto, ma efficace) che si farà carico di risolvere le diatribe che si produrranno nelle differenze fra il Consiglio (espressione dei governi in carica) il Parlamento (espressione del voto del 23-26 maggio) e Commissione con nominati di varia estrazione (governi in carica senza scossoni da “europee” o viceversa).
“Sarà un’esperienza”, dice il nostro ministro degli esteri in una lunga conversazione in brussellese stretto con una ventina di lobbisti italiani, “vedere come se la caverà un Parlamento per la prima volta con una opposizione vera”. E il primo grande ostacolo, dopo la kermesse della prima sessione di luglio a Strasburgo fatta di tesserini di identità, lista delle procedure per cominciare a lavorare, assegnazione degli uffici (alcuni con doccia, tutti con divano letto), lista dei rimborsi ammessi eccetera, sarà l’escussione (alcune volte veri interrogatori) dei candidati commissari, precedute dalla costituzione dei gruppi e dalle presidenze e composizioni dei diversi comitati competenti per materia che costituiscono il nerbo parlamentare.
Nel 2014 gli apriscatola erano pronti ed affilati, ma i numeri non consentivano alzate d’ingegno. Quest’anno la tentazione potrebbe essere suffragata da qualche numero in più e da proiezioni che se confermate darebbero una spinta decisiva nelle tabelle del metodo D’Hont che serve anche per l’attribuzione delle presidenze dei comitati e a riempire tutte quelle caselle da cui si esercita un minimo di potere nell’istituzione.
La tecnopoliticrazia troverà poi un suo bilanciamento fatto da riconferme di collaborazioni, saldo di debiti, appunto tecnici o politici, contratti con le direttive della passata legislatura e, in maniera forse poco spettacolare, di un senso del reale assegnato ai personaggi che raggiungono con selezioni e competenza, più che con scelte e appoggi politici, posizioni di preminenza nella Commissione europea o nel Consiglio. E sono questi cinquantenni direttori, vicedirettori generali e direttori generali dei “servizi” della Commissione, che nella giornata del voto giocano col totalizzatore dando per favorito Michel Barnier, il negoziatore della Brexit, per la presidenza della Commissione; è seguito da Manfred Weber, Margarete Vestager e infine dal vicepresidente della Commissione Frans Timmermans. Italianofilo e “fratello giallorosso” per un importante ex-corrispondente italiano: nel week-end, grazie al filtrare degli exit poll in Olanda, vede qualche chance. I bookmaker fra i giornalisti danno invece Manfred Weber 6 a 4, Barnier 3-1, Timmermans e Vestager appaiati a 8/1 e Kristalina Georgieva, l’economista bulgara ex commissaria europea con Barroso 2 e oggi a capo della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo,16 a 1.
Così la domenica, dopo un passaggio al goloso mercato di Watermael, il voto in consolato o in un seggio belga, arriva il momento dello smartphone, del tablet per controllare la diretta elettorale e gli exit poll che escono alle 18 con proiezioni che diventano poi garantite e quasi certe alle 23. A fornirli, il sito di Politico, spin-off datato 2014 del fratello americano in joint venture con i tedeschi di Axel Springer: il più anglosassone dei media brussellesi.
Intanto, lunedi 27 a Francoforte in un hangar Lufthansa l’Airbus 320 che dal 24 aprile reca sulla fusoliera, a tutta lunghezza, la scritta “Say yes to Europe” insieme a una bandiera europea di grandi dimensioni, ha ritrovato il suo look originale. A partire da un mese prima delle elezioni ha servito tutte le rotte europee, comprese quelle verso il Regno Unito, per incoraggiare i cittadini al voto. D’ora in avanti gli aerei della compagnia avranno, di fianco alla sigla di immatricolazione completata dalla bandiera tedesca, anche la stellata giallo-blù dell’Unione Europea.