Ci aprirono un varco raso al muro e ne uscimmo indenni, senza neanche prenderci uno dei bulloni, lacrimogeni, o sampietrini che svolazzavano felici in tutte le direzioni. Non ci successe nulla, ma il ricordo è ben presente nella mia memoria, e si riaffaccia ad ogni nuova manifestazione.
In America siamo stati sorpresi dall’estensione ed intensità della nuova ondata di manifestazioni: da un lato a supporto delle vittime israeliane dell’attacco di Hamas, dall’altro a supporto dei palestinesi. Il secondo gruppo si distingue ulteriormente in due: quelli che si limitano a perorare la causa palestinese per una qualità della vita decente, e perché non siano messi coi terroristi, e quelli che invece celebrano il successo di Hamas come paladini della libertà, nonostante le uccisioni e torture di adulti e bambini. Particolarmente sorprendente tra i supporter palestinesi (non di Hamas), la comunità ebrea tradizionalista, che si riconosce facilmente per vestiario ed acconciatura. Loro danno la colpa di tutto a Netanyahu ed al suo governo di destra, quando in Israele hanno deciso di metter da parte le differenze ideologiche, per concentrarsi sulla risposta ai terroristi.
A Boston non potevamo perdere l’occasione di farci riconoscere: le associazioni studentesche di Harvard si sono divise tra gli schieramenti ed hanno rilasciato dichiarazioni che, discutibili nella sicurezza dell’accademia, all’esterno sono percepite molto negativamente. È stato un crescendo: siamo partiti dalla solita idiozia dell’attacco ingiustificato (unprovoked), all’oppressione che soffre il popolo palestinese a Gaza, al fatto che i palestinesi in buona parte supportano i terroristi, all’idea che Hamas ha solo reso pan per focaccia, al siete tutti nazisti.
Se questo dibattito fosse rimasto tra le mura universitarie, i ragazzi si sarebbero sputati in faccia o presi a schiaffi. A quel punto la valenza educativa dell’imparare ad argomentare le proprie idee, a calarsi nei panni del prossimo per capire il suo punto di vista, ed a capire le ragioni storiche di questo complicato conflitto, avrebbe prevalso sui danni. Purtroppo, per il famoso teorema che tutto quanto finisce su internet, resta su internet, la bomba mediatica è esplosa. Una serie di CEO patinati ha promesso di non assumere nessuno degli studenti pro-Palestina, la nuova Rettrice (woke in purezza) ha peggiorato la crisi non chiarendo subito la posizione ufficiale di Harvard, e peggio ancora gli scalmanati hanno iniziato a minacciare di morte e ritorsioni gli studenti di entrambe gli schieramenti. I ragazzi si son rintanati ammutoliti nei loro dormitori, con buona pace delle prediche sulla libertà d’espressione.
Il fatto è che se siamo veramente a favore della libertà d’espressione, che include quella di ascolto, lo siamo esattamente per quelle idee ed opinioni che riteniamo sbagliate, addirittura vomitevoli. Questo nostro diritto è fondamentale, secondo solo a quello di avere un tetto sulla testa ed un piatto in tavola, ossia le due condizioni che in questo istante scarseggiano a Gaza. Dire che il 10, 25, 50% dei palestinesi tifa Hamas può non piacere, ma non giustifica la loro distruzione.
È dal 1948, dalla dichiarazione universale sui diritti dell’uomo, specificamente gli articoli 9 e 18, che dovremmo aver chiaro il diritto di ogni persona di pensare, dire, ascoltare cosa vuole, e di manifestare il proprio credo religioso, politico e dei propri valori. Queste manifestazioni non possono mettere a repentaglio la sicurezza, la salute, l’ordine e specialmente i diritti fondamentali del prossimo, ma proprio per questo motivo i giovani vanno incoraggiati e guidati a manifestare. Devono imparare a manifestare, per salvaguardare diritti fondamentali per una vita in una società che non sia totalitaristica.
Quindi, forza ragazzi: evitate le manganellate a voi stessi e prossimo, ma fatevi sentire, ed imparate ad ascoltare.