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La fabbrica dei chip

La forte crescita della domanda di chip per le ultime generazioni di computer dedicati a giochi e mining (creazione) di criptovalute, unitamente ai problemi logistici derivanti da Covid e dazi, ha causato sconquasso nell’industria elettronica mondiale.

Il forte impatto ha colpito anche le aziende automotive, che sono indietro di due generazioni rispetto ai chip che usiamo per videogiochi, miner e cellulari. L’America per anni ha bellamente esportato la produzione di questi componenti elettronici in Cina, Corea, Taiwan e paesi limitrofi, senza capire che questo avrebbe portato il consolidamento del settore nelle mani di pochissime aziende asiatiche: TSMC e Samsung da sole controllano il 70% dei $600 miliardi del mercato, ed i loro prodotti sono più innovativi di nomi storici come Intel.

Peggio: i chip sono entrati dappertutto, dai computer alle lavatrici, e chi controlla questo mercato effettivamente detta le condizioni a molti altri settori industriali. Unico caso di azienda che sappia cavarsela da sola è Tesla, i cui ingegneri elettronici e firmware hanno progettato diciannove chip per le loro auto e batterie, mentre i concorrenti automotive che mai han sviluppato queste competenze, son stati costretti a pagare prezzi maggiori e ridurre il numero di chip nelle loro auto, a tutti gli effetti rendendole più stupide di prima.

Logico aspettarsi che l’homo politicus americano, come il cugino europeo, abbia deciso di stampar soldi per creare nuove fabbriche di chip, quasi fossero edicole o pizzerie. Da una parte e dall’altra dell’oceano sono stati stanziati miliardi, in America $52 son quasi pronti, per incentivare Intel, Nvidia e concorrenti ad aprire impianti per produrre nuovi chip. Il problema è che una fabbrica va dai $400 milioni ai $10 miliardi, ed i concorrenti cinesi investono $450 miliardi a testa. Soprattutto, queste fabbriche richiedono strumenti e professionisti specializzati, che impiegano anni ad essere formati ed a portare a regime una fabbrica.

Nei giorni scorsi Joe Biden ha festeggiato il primo avviamento di una nuova fabbrica, quella di Intel in Ohio, dove $20 miliardi serviranno per costruire due stabilimenti cui ne seguiranno altri per un totale di $100 miliardi. Dai primi 3.000 lavoratori, a regime si passerà a 10.000. Intel fa shopping di incentivi anche in Europa, alla ricerca di soldi pubblici per mettere il centro ricerca e sviluppo in Francia, la parte importante della fabbricazione in Germania, ed infine assemblaggio e test in Italia.

La multinazionale americana utilizza il finanziamento dei $20 miliardi in Ohio per farsene dare $95 dall’Unione Europea, e con l’approccio divide et impera mette in concorrenza stati e regioni dei tre paesi, per poter costruire una nuova realtà produttiva a spese dei contribuenti francesi, tedeschi ed italiani. Pare una barzelletta, perché anche i pioppi sanno che i finanziamenti pubblici alle aziende private raramente sono un affarone per i contribuenti. I PowerPoint che i consulenti usano per promettere mari e monti sono sempre soggetti a condizioni che, per tragico destino, dopo un paio d’anni non si avverano e l’azienda ha modo di disfarsi degli impegni assunti.

Se la saga dei chip serve da lezione per non cedere alle lusinghe della globalizzazione, per capire che gli investimenti in tecnologie e prodotti complessi sono anche un volano per gli altri settori economici che poi arricchiscono territorio ed economia domestica, possiamo immaginare un modo migliore di spendere $95 miliardi. Dandoli a quelle scuole superiori, a quelle università, a quelle start-up, piccole e medie aziende che sicuramente rimarranno radicate sul territorio. Aziende che certamente dovranno confrontarsi con la concorrenza internazionale, ma se investiamo in formazione e ricerca applicata, se diamo una mano agli imprenditori a svilupparsi, possiamo scommettere che non scappano alla scadenza del PowerPoint o al prossimo cambio di governo.

La saga dei chip ci offre un altro spunto di riflessione: vogliamo continuare ad essere un paese tecnologicamente avanzato e benestante, o vogliamo seguire il venticello del momento? Quello è fatto d’aria calda e rarefatta, ma ci sospinge a vele spiegate verso il terzo mondo.

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