Io sono solo su X da oltre dieci anni e mi trovo bene, sia prima di Elon Musk sia dopo, perché sono lì per imparare, non certo per dibattere sul nulla con la monocultura dominante. I tweet sono concepiti per bisticciare e separarsi fra due tifoserie, convinte entrambe di avere il verbo. Le mie idee le esprimo nel Cameo o su Zafferano, senza nessuna pretesa che altri le condividano. Il tweet è una sveltina digitale riservata ai colti per supportare una mentalità basata sulle liste di proscrizione. Per me dibattito significa che uno dice la sua, senza essere interrotto, l’altro pure, e amici come prima.
Mi ha spiegato le difficoltà tecniche per abbandonare un social. Non le immaginavo. Primo, trovare nei meandri del computer il comando per eliminare l’account. Secondo, quando l’hai trovato ti si presentano due opzioni: sospenderlo o eliminarlo. Se scegli di eliminarlo, l’algoritmo ruffiano ti presenta un album delle fotografie degli amici-follower per farti desistere. E a te pare che il click non sia più il premere un tasto ma il premere un grilletto di una pistola digitale che uccide a sangue freddo gli amici di una vita in rete. Come succede a me che rifiuto, per affetto e rispetto, di cancellare dallo smartphone i numeri di telefono degli amici morti.
Si era iscritta, aveva partecipato attivamente, condividendo l’idea di allora che attribuiva alla rivoluzione digitale una gigantesca importanza, persino superiore a quella dell’invenzione della stampa. Grazie ai social la vita, pensava C., sarebbe cambiata in meglio, malgrado i buzzurri in rete. Gli esperti pontificavano sull’irreversibilità del mezzo e del mondo conseguente, la nostra vita si sarebbe evoluta grazie alla mediazione dei social.
Così rifiutò le tesi, sorridenti ma feroci di Umberto Eco, finse di non vedere la proliferazione della figura del cosiddetto “webete”, un idiota da rete che crede a tutto ciò che legge, anzi tende in automatico a amplificare e diffondere le idiozie che crede vere perché suggestive. Mi confermò che rifiutò di accettare la nota formula: “Più aumenta il bacino di coloro che utilizzano il modello, più il modello diventa idiota”.
I Social sono come il CEO capitalism, come la teologia woke, è sbagliato combatterli, nel loro DNA c’è probabilmente una proteina che li porterà all’autoestinzione. Aspettiamo fiduciosi.
Abbiamo concordato con C. che non esiste nessun modello di comunicazione che renda intelligente un cretino o perbene un birbante. Così come non è credibile che ascoltare e considerare notizie che notizie non sono, ragionamenti che ragionamenti non sono, possa essere un modo per aggiungere alti tassi di intensità a vite strutturalmente non intense. Abbiamo finalmente scoperto, dopo un ventennio di fuffa digitale, che i social sono nell’altro che strumenti di promozione commerciale mascherata. Un modello che ha creato narcisisti, pardon, illusioni di narcisismo diffuso. Tutto qua, il resto era ed è fuffa.
Sul tovagliolo di carta della trattoria dove abbiamo pranzato le ho scritto un celebre verso del Bardo “Time is Out of Joint”, dove con “time” si intende natura, mondo, tempo, e con “out of joint” si intende fuori schema, disarticolato, o meglio ancora, stante il caso, sconnesso. Saggia decisione quella di disconnettersi dai social e di cercare di ricomporre il “tempo”, soprattutto “metterlo dritto”.
Saggiamente i nostri genitori ci hanno consegnato una vita “in squadra”, l’educazione impartitaci ci ha messo entro confini morali ed etici precisi, viviamola connettendoci con altri essere umani con i quali ci troviamo bene, non abbiamo alcun bisogno di connetterci con esaltati, oltretutto sconosciuti. Men che meno utilizzando un losco intermediario digitale concepito solo per far ricchi e potenti individui umanamente ignobili come Bill Gates, Mark Zuckerberg e soci.
Aveva occhi felici, abbracciandola ho capito che il doppio abbandono l’aveva fatta tornare simpaticamente umana. Cara C. ti voglio bene, e tu lo sai.