Paradossale, ma del tutto comprensibile. La poesia non è uno strumento di abbellimento di verità che già si conoscono. Non è un modo per sfuggire alla realtà, secondo un’idea ottocentesca e decadente. La poesia, come il resto della letteratura, è un modo per conoscere in maniera sintetica la realtà che si ha davanti. La poesia, più del resto della letteratura, accentua questo carattere di sinteticità, chiamando in causa il lettore per la decifrazione, per la molteplicità di significati che si possono aprire.
Guerra e Poesia è così un patchwork di brani di autori, assemblati in modo poetico, per capire il male oscuro della guerra, il più persistente degli atteggiamenti umani, e in fondo il meno comprensibile nella sua capacità di creare dolori senza fine a innocenti. Certo, poi quest’opera poetica si staglia all’interno delle convinzioni che Ruggeri ha studiato per anni: la corruzione del sistema capitalistico passato in mano a CEO non responsabili del capitale, l’immobilismo dell’ascensore sociale in Occidente e la cruda violenza dei tanti regimi non occidentali, il progressivo decadimento delle élite coinvolte da troppo tempo in consorterie indifferenti al merito, le banali transazioni economiche alla base di tanti traffici mondiali.
Tuttavia, non è qui il bello di questo libro. Ruggeri ne aveva scritti molti altri per spiegare la sua analisi dei nostri tempi e della nostra società. Qui invece ha bisogno di fare un’altra operazione, sintetica e non analitica.
Qui vuole e deve urlare l’orrore per la guerra che sale dal popolo, da tutti i tre tipi di popoli che egli sente di incarnare: quello anarchico e insofferente a ogni potere, quello socialista radicale che vede lo sfruttamento dell’orrore, quello cattolico che soffre ogni minaccia alla singola persona. A essi, Ruggeri aggiunge l’urlo del liberale puro che guarda collassare il proprio mondo di libertà e merito. È un urlo troppo complesso da essere analizzato. Ci vorrebbero volumi, che in gran parte già ci sono, ma nessuna analisi parteciperà di cuore alla sofferenza delle bombe.
Per questo, gli eroi del libro – per auto-ammissione dell’autore – diventano Oppenheimer e Céline, due che si sono sentiti invasi corrotti distrutti dalla guerra. Ma non ci sono solo loro. Ben presi o mal presi, ci sono anche Nietzsche e Sartre, Zelig e Musk, Kutuzov e Trotskij, Borges e Proust. Tutti insieme per urlare che la guerra è terribile, senza pose e discorsi da pacifisti, senza soluzioni alternative utopistiche, ma anche senza giustificazioni. È male la guerra, dovunque sia, comunque sia – questo dice la gouache découpée di Ruggeri, simile in questo all’anziano Matisse, che trasformò in arte il gioco del collage, fino all’urlo supremo dell’Icaro con il cuore rosso che cerca di volare verso il suo destino.
Ruggeri non si ferma neanche a cercare di dire chi sia nel giusto o nello sbagliato nelle tante guerre di oggi, dall’Ucraina a Israele, dallo Yemen al Nagorno Karabach. L’orrore è uguale: innocenti vengono uccisi. E questo è tutto. Assomiglia al finale tragico di Grossman in Tutto scorre, un libro che stranamente manca ancora alla gouache di Ruggeri: «Non tutto ciò che è reale è razionale. Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile».
E così come l’orrore sembra non avere fine, per qualche mistero altrettanto poetico e non analizzabile, in tutto questo Ruggeri non perde la speranza, tanto più paradossale quando si ha chiara la profondità dell’orrore.
Diversamente da Céline e Oppenheimer, Ruggeri spera con certezza in un finale positivo. In spem contra spem: sperando contro ogni speranza. Sarà il lungo retaggio cattolico o l’affetto per i nipoti, ma l’ultima parola, sembra dire, non è ancora detta se qualcuno è in grado di scavare le parole di una poesia, di fare una rivolta stando in silenzio, di amare la menzogna del teatro e non quella della politica. Non saranno queste capacità estetiche a salvarci, ma – suggerisce Ruggeri – saranno esse le sentinelle che si accorgeranno quando comincerà a capitare qualcosa di diverso e di buono, finalmente.
Giovanni Maddalena