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La solitudine dell’eroe sofocleo

L’amara presa di coscienza della miseria e della nullità della condizione umana, riflessione etico-esistenziale caratteristica della produzione di Sofocle (Atene, V a.C.), è uno dei nuclei tematici al centro della vicenda di Antigone, protagonista dell’omonima tragedia.

Tebe. Antigone, figlia di Edipo, è condannata a morte per aver tentato di seppellire, contro la volontà del re Creonte, il fratello Polinice, ucciso in una battaglia che lo vedeva nemico della città. Antigone, opponendosi alle norme cittadine, muore sacrificata in orgogliosa difesa delle leggi “non scritte” degli dei, quelle leggi che comandano di rendere onori funebri ai cari.

Dal primo ingresso in scena fino al momento del κομμός (commòs) finale, l’audace eroina sofoclea appare drammaticamente sola. Sola dinnanzi al mondo, unica voce ribelle. Sola dinnanzi alla propria atroce e inevitabile sorte. Dietro la maschera trionfante, dietro la cieca obbedienza ai sacri doveri naturali, Sofocle dipinge il dramma prorompente di una ragazzina, una sposa, una moglie mancata. Antigone non crescerà, non diventerà donna. Come afferma Giovanni Greco, Antigone sarà madre e sposa solo nel mondo capovolto dell’Ade (1).

La giovane figlia di Edipo, tuttavia, è sola, paradossalmente, anche dinanzi a quegli stessi dei in nome dei quali muore. Non c’è salvezza per Antigone e per gli “uomini giusti” come lei. La morte livella, la sofferenza è una condizione comune a tutti, senza alcuna clausola. È chiara, quindi, la presa di distanza di Sofocle dal πάθει μάθος (pathei mathos) eschileo, da quel rapporto di religiosa didattica del dolore che si instaura tra le divinità e l’uomo. La sofferenza umana è ora, invece, fine a sé stessa, oggetto di disinteresse da parte di lontani, se non ostili, dei.

Antigone che si dispera eroicamente difronte alla morte, Antigone che piange la sorte del padre e dell’intera stirpe, può essere considerata l’immagine culmine di un processo evolutivo che, se si segue l’ordine cronologico delle vicende narrate negli altri due drammi sofoclei appartenenti alla “saga tebana”, comincia con l’Edipo re. Oramai al termine della tragedia, un cieco e sofferente Edipo piange il proprio io-non io, la propria nullità e il futuro della propria famiglia. Tra le sue braccia, le due figlie, ancora bambine, ignare del destino che su di loro incombe. Dello stesso tono drammatico è anche il celebre ed emblematico finale dell’Edipo a Colono. Ora sono Antigone e la sorella Ismene, affrante per la scomparsa del padre, a farsi portavoce, nel lamento e nella solitudine, dell’eterna e incontrastabile sofferenza umana.

Il κομμός (commòs) di Antigone è da leggersi, quindi, come un ulteriore momento di esemplificazione e di universalizzazione, mediante i protagonisti delle tragedie, dell’insensatezza dell’esistenza.

Non è, tuttavia, solo la vita di Antigone a concludersi con un lamento, al quale segue una coraggiosa accettazione del dolore e del destino. Nonostante Creonte non sia l’eroe della vicenda, ma, anzi, venga dipinto come il vero antagonista, anch’egli è emblema della fragilità umana. Creonte è la personificazione non solo del precario e limitato potere concesso ai mortali, ma anche di una felicità illusoria, labile, destinata presto a crollare. Antigone e Creonte, spogliati del conflitto che li oppone, possono essere considerati due volti dello stesso paradigma, il paradigma dell’uomo solo, inevitabilmente sofferente, abbandonato a un atroce e assurdo destino che solo gli eroi sanno affrontare. Il paradigma dell’uomo sofocleo.

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1) Greco G, Sofocle, Antigone, Feltrinelli, Milano 2013

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