Questa soluzione funzionava da quattro anni, e serviva a ricevere dati e mandare comandi a tutta una serie di oggetti connessi ad internet: se l’avete adottata in azienda o usata per sviluppare delle soluzioni applicative, questa è una bella rottura. Google non è nuova a questi cambiamenti di direzione: sviluppano bene una nuova tecnologia e, se pure ha successo, spesso cambiano piani e vendono o chiudono il tutto. Molti architetti e studi di costruzione hanno qualche cicatrice dai tempi di Sketchup, ottimo prodotto di progettazione che dopo cinque anni fu venduto ad un partner, lasciando in imbarazzo milioni di clienti.
Il motivo di questa ritirata dal mercato è che la semplice connettività con un oggetto, o la capacità di autenticare l’utente e fare qualche altra operazione semplice, non possono dare alcun vantaggio competitivo, sia esso di costo o di differenziazione. Le piattaforme IoT generiche sono l’equivalente degli antibiotici ad ampio spettro: raramente utili, con forti controindicazioni, meglio evitarle. L’idea che un oggetto possa mandare i propri dati nel cloud (nuvola di dati), dove un qualche robot intelligente decide come ottimizzarne il funzionamento e fare previsioni foriere di grandi ricavi, è spesso bacata. Anni fa vidi una segheria industriale, dove usavano sensori wireless per mandare dati in un sistema centralizzato che ottimizzava il consumo delle lame. Funzionava, ma il risparmio in lame era nulla in confronto al costo del non sequenziare correttamente le operazioni di taglio: il danno collaterale era ben maggiore dei benefici dall’aver risolto un problema da nulla.
Il vero internet delle cose non si limita alla possibilità di misurare alcune variabili, e spedirle via internet in qualche database remoto, dove algoritmi intelligenti scritti da chissà chi svilupperanno soluzioni a problemi spesso sbagliati. Pensiamo tra l’altro alla difficoltà fisica di raccogliere dati, mandarli nel cloud ed attendere istruzioni in tempo quasi reale. Non a caso il Dipartimento della Difesa USA vuole che i suoi aerei, navi e sistemi d’arma abbiano abbastanza intelligenza a bordo per fare la cosa giusta, senza dipendere da comunicazioni da e per un sistema centralizzato (qui)
Con Edge computing si intende la possibilità di avere, a bordo macchina ovvero sulla cosa stessa o nella sua vicinanza, tutta la capacità di calcolo e di memoria necessarie alla sua ottimizzazione. Se lo pensiamo in termini architetturali, vogliamo distribuire l’intelligenza tra la periferia dove ci sono tutte le cose che contano, ed il centro dove c’è un robot che aggrega i dati e fa previsioni sul futuro. La chiave nel progettare e supportare la digitalizzazione delle cose sta nella massima conoscenza del mestiere e dei processi necessari a funzionare al meglio. Lo vediamo con Locus Robotics, i cui robot di magazzino sono collegati ad una rete wireless dedicata e sono guidati da una logica di sciame ritagliata sulle esigenze specifiche dell’azienda che li usa. Allo stesso modo negli altri settori industriali e dei servizi, meglio non seguire gli antibiotici ad ampio spettro, ma sviluppare soluzioni mirate sulle esigenze di ognuno. Non rimpiangeremo l’uscita di Google.