Da Franco Tatò ti aspetti la scorza perché ce ne sono a decine di aneddoti sul suo piglio decisionista e intransigente; quanti luoghi comuni sugli altri. Dagli anni ’50 ad oggi, sotto di lui sono passate le storie aziendali di Olivetti, Mondadori, Fininvest, Enel e in mezzo alle storie anche le persone: De Benedetti e Berlusconi su tutti, rapporti conflittuali ma schietti, e ricordi ancora accesi.
Mi aspetta nel suo studio di Milano, i Navigli ci guardano le spalle.
Gli porto subito i saluti di Riccardo Ruggeri, colonna come lui di quel management italiano d’altri tempi. Gente dritta, gente preparata. Nel 1997 scrissero insieme “Essere competitivi. Le storie di due protagonisti” (Dalai Editore): entrambi con le spalle grosse, cresciute dentro i grandi gruppi industriali che volevano manager come loro per risanare, fondere e acquisire; fondamentalmente li chiamavano per capire ciò che sfuggiva agli occhi dei mediocri. In quelle pagine raccontano a quattro mani ciò che adesso viene chiamato re-engeneering manageriale da tutti quelli che vivono e lavorano col mignolo alzato: tutti gli altri la chiamano capacità di aderire ai potenti cambiamenti del mercato senza subirli. Tutt’altro, cavalcandoli.
Si diverte ancora a scrivere?
È una dimensione che di certo mi appartiene.
Mi colpisce dal primo istante, di un’eleganza in cui gli abiti non contano. Ha i pensieri eleganti, quest’uomo. Gli guardo le mani che si muovono sulle parole senza volerle coprire. Si è letto talmente tanto di lui – e detto anche di più, dal “Kaiser Franz al manager filosofo” – che appena me lo trovo davanti cambio rotta, le interviste faccia a faccia hanno il bello del fuori programma. In pochi istanti mi ricostruisco in testa la traccia di domande. Ora che ce l’ho di fronte, non trovo interessante rivivere con lui la sua storia di manager negli anni chiave dell’industria italiana ma rileggere con lui storia e cultura manageriale che si è visto passare accanto. Mi serve un Tatò traduttore e interprete, e credo serva a molti altri.
Partiamo dai suoi studi filosofici, fatti per scelta e non per strategia di calcolo sulla ricerca di un lavoro sicuro. È il tema attualissimo che incombe anche sui giovani di oggi: si studia per sé o per il mercato?
Mediamente la pongono così la questione, ed è un falso problema. Penso che le persone dovrebbero studiare sempre con un progetto in testa. Nel mio caso, certo, tutto è stato atipico perché iniziai a studiare filosofia che avevo in mente una carriera accademica. Dopo la laurea, però, andai per oltre un anno in America ad Harvard, era il 1955, e fu forte lo shock del confronto con la cultura capitalista, americana, veloce, per quegli anni modernissima. Tornando poi in Italia, non riuscivo più a non vedere questo nostro mondo come piccolo, stretto, difficile. Le carriere accademiche erano fatte già allora di tempi lunghissimi e parole ridicole. Mi prese una furia interiore e scrissi una lettera ad Adriano Olivetti che la lesse di persona, e mi invitò subito a Torino il lunedì successivo. Era giovedì quando mi comunicarono l’incontro.
Cosa scrisse ad Olivetti?
Semplicemente chi ero, cosa avevo studiato e che arrivavo da un’esperienza intensa ad Harvard. Di sicuro avevo toccato una corda sensibile perché lui e la sua famiglia si erano formati in America, anche il padre aveva studiato là. Non avevo fatto una lettera implorante, ci mancherebbe, ma onesta sì su me stesso e sul mondo che avevo intorno. Fui assunto e lì iniziò la strada classica. Lavorai per sette anni come direttore del personale a Ivrea che poi è sempre una posizione ambigua quel ruolo lì, non si chiamavano ancora risorse umane, le cose avevano il loro nome e non esisteva tutto il finto politically correct di oggi. Gestii parte aziendale e sindacale, turbolenze del ’68 compreso.
Fare il direttore del personale è spesso un ruolo equivoco se non lo sai gestire, non puoi essere né sembrare amico dei colleghi. Lo feci per un lungo periodo anche in Germania, conoscendo il tedesco mi mandarono a Francoforte; un’idea bizzarra, secondo me, mandarmi là ma comunque mi è servito e non rimpiango nulla.
Diverso fare il capo del personale in Germania?
La differenza principale, in quel settore, era la totale assenza di conflittualità con le maestranze. Trovai tantissime forme di collaborazione dialettica in Germania: le regole c’erano e venivano accettate, prima ancora che rispettate da tutti. Quella fu la mia alba perché poi di esperienze aziendali tedesche ne feci altre, di sicuro più complesse.
La storia sarebbe lunga ma la faccio breve. Entrai più volte in conflitto con il nuovo direttore della Deutsche Olivetti, un pazzo chiamato dall’Argentina che faceva errori pacchiani e non sapeva una parola di tedesco. Fu lui a chiedere che mi riprendessero in Italia e per punizione mi mandarono a Milano, non più a Ivrea, a fare il capo del personale in Olivetti General Electric, la divisione elettronica di casa che era stata appunto ceduta agli americani ed era appena nata.
Cosa imparano i manager italiani da una cultura americana?
Con gli americani ho imparato forse tutto. Le aziende americane hanno una ossessione maniacale per la formazione, nella mia carriera professionale grazie a loro ho fatto non so quanti corsi di management, comunicazione, marketing, amministrazione, programmazione. Se non ti formano, non cresci tu e non cresce il sistema aziendale. Corsi fatti a 360 gradi, per ben cinque anni. Fu in questa fase che iniziai a occuparmi di marketing, lasciando alle spalle la via del personale.
Collochiamo la Olivetti di quegli anni.
Siamo alla metà degli anni ’60, inizio ’70. Si chiamava OGE (Olivetti General Electric) e aveva appena lanciato il 101, che bisognava iniziare a piazzare a livello internazionale. Io con la GE ho assorbito una filosofia di management che per noi italiani era a dir poco rivoluzionaria nonostante venissi da un’esperienza di altissimo livello fatta in Olivetti.
Adriano Olivetti riesce tuttora ad essere un faro per molti. Vuol dire che in Italia ci siamo fermati a quel modello, che nessuno dei nostri è stato più in grado di fare passi avanti o che lo abbiamo sopravvalutato?
Penso che Olivetti sia stata una splendida esperienza ma che vada collocata in quel periodo storico, che vuol dire anni ’50. Troppo spesso si dimentica che, già agli inizi degli anni ’60, Olivetti entrava in una crisi spaventosa quindi tutto questo filosofeggiare va rapportato anche a fasi di difficoltà.
Uno spessore culturale dei manager italiani allora c’è stato. Viene da chiederselo perché l’Italia industriale degli ultimi decenni non brilla né per competenza né per sensibilità.
Spessore ce n’è stato e come. Il nostro problema è stato l’esasperante processo di politicizzazione su tutto. Politicizzare da noi vuol dire scambio di favori, a un cento punto in Italia abbiamo sostituito la valutazione obiettiva dei risultati con la capacità di fare favori o ricambiarli. Gli italiani si sono messi a cercare consensi per cercare di restare al potere ed è questo che ha introdotto la radice del nostro problema profondo: la corruzione.
A un certo punto l’Italia si è infettata e il ’68 ha contribuito a rafforzare il valore della politica a ogni livello e a ogni costo, nonostante i buoni slogan, le buone parole e i buoni propositi pieni di immaginazione. In pratica si rivelarono espedienti per allontanarsi da un confronto competitivo fatto di fatica, impegno e merito.
Gli italiani sono troppo distanti dalla competizione o dalla fatica?
L’unico parametro che testimonia la serietà imprenditoriale di un Paese è la produttività e da noi continua a scendere, ormai da troppo tempo.
Allora è un problema più alto: di management e non della base.
Il problema italiano è soprattutto un problema di management. Il caso Olivetti lo dimostra: per una serie di motivi, lui aveva una compagine professionale di livello mai visto prima. Non ho mai trovato da nessun’altra parte un simile livello di cultura e nel dire cultura intendo il sapere in ogni sua espressione, anche tecnologica ovviamente. Lì dentro si respirava uno spessore diffuso, persone motivate, rapporti umani che era raro trovare altrove. Ma tutto questo a un certo punto sparisce e il responsabile della fine è solo Carlo De Benedetti che si siede in Olivetti per un colpo fortunato e, vittima di questo complesso, lo sfrutta a suo beneficio personale, non credendoci e non ritenendosi capace di identificarsi col passato di Olivetti. E non capisce che il futuro della Olivetti poteva essere il futuro dell’Italia e che si poteva costruire un futuro solo valorizzando il suo passato.
De Benedetti e l’avversità per Olivetti. In cosa, soprattutto?
Lui non era un uomo di prodotto ma di numeri: sulla finanza era inarrivabile. Ho imparato più da lui che da chiunque altro se parliamo di operatività e finanza. Una macchina da guerra. Potrei fare un elenco dei suoi errori ma mi limito a questo paradosso, il primo.
Quando una dozzina di ragazzi fa nascere la Microsoft, il computer era già stato inventato a Palo Alto ed era partita anche la Commodore. In questo mondo variegato di ferraglia sulle scrivanie, entra quindi IBM col suo pc: tecnologicamente perfetto e grande affidabilità, oltre alla capacità di essere distribuito in tutto il mondo.
De Benedetti che fa? Piuttosto che prendere in mano la situazione, e risorse e strumenti e competenze non gli mancavano certo, decide di non sviluppare il software per questo computer e affida nientemeno che il sistema operativo ad una azienda esterna, che diventerà poi la Microsoft col giovane Bill Gates; tutti si domandavano perché. Avevano appena fatto la prima delle rivoluzioni, vale a dire non scatenare le resistenze di Microsoft e avviare l’epoca dei sistemi aperti. A quel punto IBM separa l’attività di sviluppo e assistenza dei clienti nelle applicazioni. Se oggi abbiamo lo sviluppo delle tecnologie è grazie a questa apertura di IBM. Quelli della mia generazione hanno sempre avuto una certa repulsione per IBM ma serve essere onesti e non si può non definirli visionari. Senza IBM non sarebbero nati gli sviluppatori liberi e quelli che oggi fanno le app: uomini, quelli, di una modestia spaventosa. Secondo errore di De Benedetti: parallelamente Olivetti aveva sviluppato un pc, M20, tecnologicamente impeccabile. Avviammo il dibattito interno e comprammo un sistema operativo ma ci imposero una decisone ferrea: il sistema operativo sarebbe stato chiuso. Fu il punto di non ritorno dell’Italia.
Come si arrivò a quell’autogol?
Il management non era già più illuminato. Io ero alla direzione commerciale di tutte le realtà internazionali e mi misi in una opposizione ferrea. Accadde che mentre la Olivetti stava negoziando acquisizioni e fusioni, si dimise il capo e tutto il management della Olivetti americana. “Tatò, vai tu a coprire questa posizione, tienila calda in attesa che da qui nominiamo qualcuno”. Ho visto così coi miei occhi, erano i primi anni ’80, cosa succedeva nel distribuire l’M20. Non vendevamo niente e pensare che erano gli anni dei pc. Mi inventai una follia che mi costò quasi la testa, ma non mi rassegnavo. Per 50.000 dollari comprai da un’azienda del New Jersey un simulatore con un bagaglio di programmi infinito, lo caricai sopra l’M20 che andava sì più lento ma aveva finalmente dei programmi. Un Olivetti M20 simulato Commodore. Lo avevo annunciato ufficialmente, niente di segreto o contraffatto, ma questa mia sfida non fu apprezzata: volevo far arrivare un messaggio molto chiaro eppure il mio management se la prese e come. Con De Benedetti eravamo già ad una seconda crisi di Olivetti. In quel periodo venne assunto come Direttore generale l’ingegnere Simone Fubini, anche lui torinese, progettista del mainframe Olivetti, bravissimo. Fubini inizia a lavorar e capisce al volo i problemi interni. Un piccolo gruppo di progettisti aveva intanto sviluppato un piccolo computer compatibile IBM, una copia del pc IBM: lo chiamarono M24, lo annunciarono sul mercato come compatibile IBM usando quindi il sistema operativo Microsoft e con un boom spettacolare ne furono vendite in un anno più di 750 mila. Era il 1982: Fubini aveva avuto successo e per questo venne licenziato. Pura gelosia, niente di più, non ho altro da aggiungere.
Autodistruzione, insomma.
Simone Fubini tornerà poi nella mia storia perché i meriti delle persone valide vanno prima o poi onorati. Lo chiamai per lo sviluppo del contatore elettronico dell’Enel. Il progetto è mio ma l’ho fatto realizzare da Fubini. Non solo riuscimmo a realizzarlo ma in Italia ne installammo ben 33 milioni.
Altra epoca per lei, quella di Enel. Che Italia era, vent’anni dopo?
Era un’altra storia di cui Fubini racconta i paradigmi. Lo richiamai non solo per la sua bravura ma anche per tutta la stima che riponevo in lui. Uno scambio vero. Mentre quei dodici di Microsoft conquistavano IBM, noi avevamo 750 softwaristi di livello altissimo ad Ivrea, tutti ingegneri dal Politecnico di Torino e di Milano, oltre a gente che aveva studiato in America, capaci di sviluppare qualsiasi cosa ma messi a sviluppare puttanate che nessuno voleva.
Il management di Olivetti si era incartato nella linea politica e la base finanziaria in crisi rendeva tutto più difficile, tra cessioni e acquisizioni confuse.
Il caso Olivetti andrebbe studiato oggi non per ricordare il fondatore ma per capire come il decadimento di un management abbia giocato un ruolo decisivo per l’Italia intera: un sistema manageriale inserito in un Paese che non rischia, che non finanzia, che ha paura, che si incarta.
La paura degli italiani.
Fare il manager in Italia è un lavoro difficilissimo perché per decidere ogni cosa occorre superare una marea di ostacoli e, se non sei un grande atleta delle imprese, non ce la puoi fare. Ostacoli giuridici, sindacali, norme di sicurezza, cavilli fiscali. Negli altri Paesi non è così e infatti gli italiani all’estero sono veri e propri fulmini.
Tanti ostacoli eppure tanta corruzione: qualcosa non mi torna.
Così tanti ostacoli vengono messi proprio in risposta ad una cultura corruttiva. Le regole in Italia vengono messe non per impedire ma per incassare soldi o favori. Di più autorizzazioni o deroghe hai bisogno, più persone possono avere in cambio una mancia, e la chiamo mancia per tenermi basso. Spesso le tangenti vengono pagate non per violare la legge ma per poter fare ciò a cui si avrebbe già diritto: è un paradosso ma è tutto vero. L’Italia è così: quando te ne allontani, allora respiri e riesci a lavorare in un sistema complessivo favorevole alle imprese. Qui è tutto un “non si può fare”.
Il management è fatto di consiglieri e di CdA di cui nessuno parla, si cita sempre il vertice.
Ma possibile che siano tutti delinquenti in Italia? No, non ci credo e non è così. Di fatto i consiglieri non possono fare niente, imbrigliati come sono dalle norme. Sono rarissime le aziende italiane in cui i CdA decidono qualcosa, sono solo meri esecutori. Se esclude i grandi nomi, le aziende medie italiane danno compensi ridicoli ai consiglieri perché nessuno vuole che i consiglieri lavorino e decidano. Servono solo esecutori e quindi devono stare molto attenti a come muoversi nei CdA perché alla fine rischiano di rispondere coi propri patrimoni. Non so quanti CdA ricordo in cui passavamo ore e ore a parlare solo di procedure interne. CdA svuotati, solo masturbazioni giuridiche e fiumi di consulenze esterne pagate per chiedere conferme e stare tranquilli. Per me è stata una fatica enorme non poter fare ciò per cui un consigliere dovrebbe essere pagato: decidere per il bene dell’azienda e di un sistema industriale collettivo.
Quando si è sentito finalmente libero di esprimere la sua creatività manageriale?
In Italia mi sono sentito libero soltanto nei primi due anni in Enel col governo Prodi e la triade Prodi-Bersani-Ciampi. Erano gli anni ’96-’98. Stavano riformando il Paese e la nostra privatizzazione di Enel l’abbiamo fatta in appena un anno e mezzo, pensi al contrario ai tempi di Telecom. Non è che non abbiamo avuto difficoltà e ostacoli, noi avevamo semplicemente la sensazione di essere partecipi di un grande progetto italiano e il governo in questo ci aiutava. Quando fui nominato Amministratore delegato di Enel e Chicco Testa Presidente, siamo entrati insieme in ufficio e abbiamo trovato sulla scrivania la stessa lettera. “Congratulazioni. Ricordatevi che il vostro compito è razionalizzare e privatizzare. Firmato Carlo Azeglio Ciampi”. Solo due righe ma intense nel loro messaggio, capisce? Quando il sistema funziona, il lavoro gira.
Gli occhi gli si fanno lucici di colpo e la voce rompe il ritmo, per un attimo ha come rivisto quella busta e riletto le due righe. Mentre citava le parole di Ciampi, la mano destra si muoveva come se le stesse scrivendo di nuovo. Si soffia il naso e si scusa del raffreddore, prende in mano un fazzoletto e lascia il tavolo. “Torno subito, mi scusi”. Raffreddori e commozioni lacrimano della stessa naturalezza, penso io. Lo scuso e come, anzi tra me e me lo ringrazio di aver tirato giù le vesti al vecchio Kaiser.
Lei è sempre stato un uomo incisivo, nella sua carriera: i tagli vanno fatti solo in basso, tra i collaboratori, o dovremmo sforbiciare più spesso anche nel management?
Il mondo di oggi è senza pietà perché è stato globalizzato senza pietà. Viviamo di paragoni e i paragoni sono ormai a livello globale, impietosi per noi italiani. Se vai piano e per di più non guidi bene, ti vede tutto il mondo. Le ho risposto?
Ci salutiamo, nel frattempo ci ha raggiunti anche la moglie. L’unico libro che ha in vista sul tavolo è di Malleus, storico amanuense di Recanati.
Sa che Malleus ha scritto e dipinto la mia pergamena di laurea? Mi incuriosisce sapere come lei possa interpretare il suo lavoro di calligrafo.
È un libro molto divertente. La calligrafia è anche uno strumento di meditazione.
Di cosa si occupa, oggi, Franco Tatò?
Visto da fuori non mi occupo di niente. In realtà osservo, decifro e cerco di non incazzarmi più di tanto. Devi accettare che hai fatto il tuo tempo.
Un’ultima nota su ciò che non le è stato permesso di realizzare negli anni di lavoro. Un episodio ci sarà pure.
Torno a ribadire la mia delusione per una Olivetti che sarebbe potuta diventare una potenza tecnologica internazionale. Credo che sarei potuto essere la persona giusta per guidarla: avevo le competenze, il carattere, le attitudini. Ma De Benedetti mi ha licenziato, anzi mi ha fatto licenziare dal Direttore del personale, senza nemmeno spiegarmi nulla perché del resto non c’era nulla da spiegare. Con lui c’era una distanza assoluta e una freddezza totale nonostante i tanti anni lavorati e vissuti insieme.
Come sta la nostra Italia?
Le società sono organismi viventi e come tutti gli organismi viventi si ammalano: ecco, anche la società italiana si è infettata. Stiamo vivendo un’epoca della conoscenza, oggi il divario non è più tra ricchi e poveri ma tra chi sa e chi non sa. Noi ci stiamo affacciando a quest’epoca quasi completamente impreparati perché per sapere bisogna capire e negli ultimi decenni abbiamo capito poco e parlato troppo. L’intelligenza artificiale è un passaggio ancora successivo, noi siamo indietro anche su questo. È un immenso peccato perché l’Italia ne avrebbe di intelligenza ma qualche germe ha intaccato il sistema. Abbiamo tutti una cultura del sospetto, dello scambio di favore, del gioco al ribasso. Temo che l’infezione sia stata proprio questa.